The horde
La horde
Yannick Dahan, Benjamin Rocher, 2009
Fotografia Julien Meurice
Eriq Ebouaney, Aurélien Recoing, Jean-Pierre Martins, Jo Prestia, Claude Perron, Yves Pignot, Laurent Demianoff, Antoine Oppenheim, Doudou Masta, Sébastien Peres, Alain Figlarz.
Venezia 2010, Giornate degli autori.
Romero non finisce mai. Del resto, è la qualità (o non qualità) degli zombi, di non poter morire né vivere. E di essere fra noi, purtroppo. Questa sensazione di sospensione orribile è il sentimento che resta anche dalla visione dell’horror francese presentato a Venezia nelle Giornate degli autori. Il senso del racconto deriva dalla stessa situazione narrativa, che mette insieme i criminali e i poliziotti in un destino di morte “non risolvibile”. La sostanza del contenuto sin dall’inizio sembra scontata: da certi poliziotti c’è da aspettarsi vendetta per l’uccisione di un loro collega da parte dei “cattivi”. Il grado di violenza della rappresentazione questa volta tende al massimo (tutto è relativo, ovviamente). I criminali abitano in periferia, in un edificio “disusato”, le loro vite subiscono la crudeltà di un destino “esterno”, ben al di là della contrapposizione legge-ordine. Il palazzo di 13 piani (Carpenter – Distretto 13 Le brigate della morte – assiste alla scena) viene invaso, “occupato” da coloro che della morte fanno la propria sopravvivenza. Il “nemico” si veste di un’obbiettività malsana che invade il campo e il controcampo dei valori. È il pericolo finale? I morti viventi non fanno distinzione, presto il teatro dell’ “involuzione” sconfinerà, l’edificio/rifugio dei criminali non basta più, tutta la città (il mondo?) è inghiottita dalla voracità negativa ben al di là del tema iniziale dell’aggressività vendicativa. C’è chi si diverte a vederla come un gioco di generi, a verificare l’evoluzione delle soluzioni espressive, a cogliere l’evidenza di qualche contradizione (gli zombi che non camminano più con fatica ma corrono veloci e senza peso). La maestria esibita nella regia sconfina persino in una disinvoltura verso la materia, sicché il dramma si attenua e quasi svanisce, si scioglie nel meccanismo figurativo del racconto. Vediamo che le armi non serviranno più alla salvezza e attendiamo una soluzione per il degrado disperato della prospettiva. Tutto sembra annullarsi in uno scontro furioso e inutile. Ciò senza nulla togliere all’apprezzabile articolazione dei singoli ruoli e alla bravura degli attori nel dare corpo alle diversità. Né la cupezza delle immagini, pur mantenuta per tutto il film, impedisce ai dettagli di emergere in squarci di luce significativi, selettivi. Quasi che il cinema stesso dichiari l’intenzione di prendersi le proprie responsabilità. Prima dell’ultima inquadratura.
Franco Pecori
1 Ottobre 2010