Don Giovanni
Don Giovanni
Regia Carmelo Bene, 1970
Sceneggiatura Carmelo Bene
Fotografia Mario Masini
Attori Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Vittorio Bodini, Gea Marotta, Salvatore Vendittelli, John Francis Lane (voce narrante).
Prologo: Istituzione del mito
Il riferimento culturale è centrato sul momento della gloria mozartiana di Don Giovanni. E si capisce perché. Nato come incredibile beffatore e miscredente, paladino della pura gioia di vivere, el Burlador de Seviglia (1630) si contrappone quasi meccanicamente alla società cristiana del XVII secolo come il simbolo della dissoluzione sfrenata e senza nome; una maschera indegna, da punire e sprofondare negli inferi senza bisogno neanche di averne individuata l’identità. Ma il primitivo Burlador acquista presto una dimensione più articolata; con l’aiuto di Molière, Don Juan (1665) comincia a riflettere e a dare un senso alla propria condotta, trovando ragioni sociali all’ipocrisia e fornendosi polemicamente una intrinseca necessità. Vive le sue avventure quasi con indifferenza, come guidato da una diabolica vocazione al suicidio. Tale tendenza al controllo e alla riflessione si cristallizzerà in una sorta di intellettualismo machiavellico nelle successive tappe settecentesche, quando Don Giovanni diventa ‘libertino’ e freddo ragionatore. Tuttavia, proprio questo passaggio attraverso l’ ‘intelligenza’ del secolo XVIII fornisce a Don Giovanni i mezzi per progredire sulla via di una presa di coscienza che lo porterà ad una vera e propria ricerca di se stesso fino all’analisi del proprio mito. Quando tale ricerca si sostanzierà di una componente umana e storica più consistente e precisata, la riflessione si tramuterà in ironia e il comico si fonderà al drammatico, nella consapevolezza, ormai, di una opposizione dialettica. L’ironia è, nel Don Giovanni di Mozart (1787), il segno di una lucidità critica di cui Carmelo Bene non poteva non appropriarsi per la sua personale riproposta del mito. Ovviamente, questo non significa che il Don Giovanni cinematografico viva in un ambito strettamente mozartiano. Il prologo, con la citazione dell’aria del Catalogo, vuol essere proprio una precisazione delle distanze. Non per niente l’immagine del Prologo è in bianco e nero, mentre tutto il resto del film sarà poi a colori e proprio per questo ce ne possiamo servire come riferimento tematico. Tra l’altro, lo stesso Catalogo scritto dal collaboratore di Mozart, fondando la sua efficacia sull’espediente di presentare il protagonista per bocca del suo servo Leporello, assumeva il valore di una rienunciazione del mito, era esso stesso un ‘riferimento culturale’.
Siamo dunque in piena area mitologica, proprio nel senso barthesiano, secondo cui il mito è un “sistema semiologico secondo”, giacché “i materiali della parola mitica (lingua propriamente detta, fotografia, pittura, manifesto, rito, oggetto, ecc), per differenti che siano all’inizio e al momento in cui sono colti dal mito, si riportano a una pura funzione significante” (R. Barthes, Il mito oggi, in Miti d’oggi, Lerici, 1966, pag. 208). L’accentuazione della condizione simbolica della scena iniziale sembrerebbe voler mantenere la semiosi sul piano di una ipercodificazione al limite del compiacimento esibizionistico. Il film comincia addirittura con la citazione da un sonetto di Shakespeare, proposta attraverso la pura e semplice inquadratura dello scritto, mentre il sonoro resta muto. Il resto del film non sarà muto; tutt’altro: avremo una ‘colonna’ estremamente articolata e connotante.
Questa specie di confronto di linguaggi, proposto nella prima inquadratura, impone alla decodifica una programmaticità tale da implicare, oltre alla prima lettura del testo shakespeariano, anche la coscienza di una lettura ‘seconda’, in senso cinematografico e comunque reistituzionalizzante rispetto alla scelta stessa dello scritto: “No, time, thon shalt not boast that I do Change: / Thy pyramidis built up with newer might / To me are nothing novel, nothing strange; / They are but dressings of a former sight. / our dates are brief, and therefore we admire / What thou dost foist upon us that is old; / And rather make them born to our destre / Than think that we bifore have heard them told”. Il discorso sul tempo assume una forma di scorrimento (la proiezione del film) che traduce in termini di sussistenza meccanica il senso delle parole in quanto tali, sottoposte alle leggi di un funzionamento e di una percezione eterogenea almeno di un grado rispetto all’istituto linguistico su cui si fonda il messaggio primario.
Per converso, la successiva rilevazione dei dati culturali emergenti dal buio (fondo scuro) sarà per il fruitore prima di tutto una messa in discussione del potere referenziale delle ‘non-immagini’, sia visive sia sonore. Le due colonne su cui possiamo tradurre lo schema del film si oppongono paradigmaticamente l’una all’altra e, nello stesso tempo, devono il loro statuto a rimandi extrafilmici, assunti nel film tramite una sorta di inglobamento appunto mitologico.
Da una parte, l’organizzazione del materiale profilmico – la tavola imbandita per il banchetto di Don Giovanni, con i vassoi stracolmi di frutta, con le candele in primo piano che illuminano il volto del personaggio truccato da maschera decrepita, ecc. – mostra i limiti di una fedeltà teatrale legata alla sostanza degli oggetti e dunque ancorata alla propria fisicità; dall’altra, l’attacco musicale del Catalogo mozartiano e poi le citazioni fuori campo di frasi emblematiche – “Aveva fatto la scoperta più impopolare, che la realtà si differenzia dal mito, nell’ambito del quale non mai del tutto è finita”; “Quello che lo allontana dal suo tempo ci allontana da lui” – contraddicono la propria storicità, poggiate come sono su di una specie di lenzuolo sonoro (il vento), che le distacca in un turbine anche qui mitologico.
Ora, non possiamo tradurre il senso della scena prescindendo dalla selezione dei piani e dalla durata degli stacchi. Dobbiamo mettere in conto la chiara stratificazione dei piani, che conducono ad una sorta di accumulo verticale delle forme e ad un conseguente disorientamento rispetto ad una ‘obbiettività’ del reale, tutto a favore di una crescita di consistenza nella dimensione ‘rito’.
“Nella bionda egli ha l’usanza / di lodar la gentilezza / nella bruna, la costanza / nella bianca, la dolcezza. / Vol d’inverno grassetta, / vol d’estate la magrotta; / è la grande maestosa, / la piccina è ognor vezzosa”. L’ ‘andante con moto’ non è che un veicolo per entrare nella profonda galleria di volti e di stupidità consacrate, di gesti ripetuti con sguardo assente, di presenze astratte e di baciamani putrescenti, di esitazioni e di lampi nello sguardo, di fioche fiammelle e di bui accecanti, nella fitta terapia di variazioni ottiche e di giunture fratturanti, che tolgono al mito l’autorità di un’esistenza astorica e lo contestano anzi al medesimo suo livello di vita: la forma del rito.
L’intervento di un Don Giovanni in prima persona, a questo punto, si impone. L’istituzione del mito chiama direttamente in causa Carmelo Bene e lo invita ad un gioco decisivo, ad una rappresentazione drammatica, ad un feroce duello con se stesso, per risolvere operativamente e storicamente una dualità solo in apparenza formale. È in ballo la vita di un uomo e non c’è altra difesa che il confronto diretto con i mezzi stessi del rito; rischiando una doppia morte, la metafisica dell’individuo e la storia come mitologia: “Quale perdita fu per l’arte che una tal mano di maestro non usasse il suo vigore congenito per fini migliori! Chi lo superò nel suo campo? Ma, ahimé, quanto maggiore il talento, tanto più numerose furono le aberrazioni pur di non aderire a nessun principio a nessuna regola, ma immaginando di sapere ogni cosa da se stesso”.
Fondamento oppositivo
Dal bianco-nero passiamo al colore. Non per entrare in una dimensione più “reale”, ma per meglio fondare l’opposizione formale al mito Don Giovanni appena istituito. Tale opposizione consisterà in un elemento fondamentale (la bambina), in un elemento di mediazione (la madre della bambina) e in varie articolazioni di questi due elementi, i quali, ora proponendo l’integrazione ora il rifiuto-dissociazione, tendono in sostanza alla ricostituzione e al rafforzamento del mito attraverso una laboriosa e addirittura affannosa riproposta del rito. Solo nell’ultima sequenza avremo il risvolto di tale procedimento. Ma non si tratterà di una sorpresa, in quanto, proprio sul piano della forma, tutta questa parte centrale del film non sarà che una progressiva frantumazione del rito, operata con i mezzi cinematografici: rilevanza assoluta alla negazione del piano-sequenza e conseguente smontaggio del mito Cinema. Il rapporto inquadratura-montaggio sarà fortemente contrastivo: per la puntigliosa costruzione interna dell’inquadratura, preparata secondo una semiosi iconologica ed extrafilmica, e per l’uso tutto ‘artigianale’ del montaggio, teso a sfruttare le linee di tensione formale interna all’inquadratura attraverso un impegnativo e trasparente lavoro di moviola.
Vediamo dunque il fondamento oppositivo nel suo elemento fondamentale. Sullo stacco del “banchetto”, mentre si tronca la musica di Mozart e continua il sottofondo del vento, abbiamo una panoramica a scendere apparentemente descrittiva. La suspense di questo movimento di macchina è però tutta sul piano del senso e una direzione esattamente inversa alla panoramica (dal basso verso l’alto) che chiuderà il film. L’imposizione del significato cade dall’alto. Il degradare della mdp scopre la Bambina di spalle, seduta al pianoforte. Un fiocco bianco le lega i capelli neri a coda; è vestita di nero, ma sulle spalle e intorno al collo il tessuto è bianco e merlettato. Legate con nastri, pendono dal collo immagini sacre sulla schiena (e, poi vedremo, anche sul petto). Il grado rilevante sul piano del senso è dato dal gesto o atto che il personaggio appena scoperto compie, completamente immedesimandosi nella funzionalità di esso, dando l’impressione, come il Don Giovanni del Prologo, che tutta la sua esistenza si concluda in quell’atto e non possa prolungarsi al di fuori. Ogni tentativo dell’un polo (Don Giovanni) di entrare in contatto con l’altro (Bambina) si infrangerà in una sorta di condizione incomunicante, ad immagine mitologica si contrapporrà immagine mitologica, sì da non potervi essere soluzione sul piano rappresentativo: la produzione di senso sarà proiettata completamente al di là del contesto filmico considerato in sé.
Il piano della rappresentazione è invece esauriente quando si tratta di uno dei poli mitologici. In questo caso, la crescita del senso non comporta riferimenti dialettici col diverso da sé, ma anzi produce un accumulo tonificante, un rafforzamento delle connotazioni e quindi delle capacità di ‘difesa’ della propria configurazione. Il percorso che la Bambina compie dal pianoforte verso la Madre, lungo la stretta pista rossa fiancheggiata lateralmente da tendaggi rossi, è un viaggio all’interno già della propria identificazione. In fondo al corridoio c’è una ‘mamma da baciare’, ma questa mamma non è garante di alcuna comunanza verso la figlia, anzi mostra chiaramente di aver assunto l’obbligo del dolore come veicolo per una trasmigrazione sul versante opposto; e sfrutterà la sua perdurante condizione materna per indurre la Bambina a scivolare, lungo la china di un’ambigua autorevolezza, verso la compromissione con Don Giovanni. Sulla scorta di tale ambiguità, si afferma la chiusura autoritaria e l’incomprensione totale della Bambina verso tutto ciò che possa rappresentare un’ancorché minima rinuncia alla propria fagocitosi (mitologia). Parla per lei, fuori campo, la voce di Santa Teresa di Lisieux, raccontando l’apparizione della Perfection e precisando come, dopo quell’apparizione, avesse compreso che “per divenire una santa bisognava soffrire molto”. È in nome di questo ‘dolore’ che si costruisce il mito della difesa della ‘purezza’ (verginità), per la quale bisogna essere disposti a tutto, anche alla morte: “Oh, come vorrei che tu morissi, mia povera mammina; è affinché tu vada in cielo, giacché tu dici che bisogna morire per andarci”. E al padre augurava lo stesso la morte.
Il riferimento alla storia di Santa Teresa è un elemento avvolgente rispetto all’individuazione del mito (del suo fondamento oppositivo) e funziona in senso puramente accumulativo. Così, anche la “storia” del padre non aggiunge niente all’identità del personaggio-Bambina, in quanto esso non è suscettibile di progressione, di evoluzione narrativa.
Fondamento della mediazione
Ucciso il padre, soffocato da un mare di ragnatele e dall’incapacità a porsi come alternativa cosciente alla micidiale ansia di verginità della figlia (“Dammi la morte, il ciglio / a te non oso alzar…”), la ricerca del fondamento oppositivo si arresta di fronte alla Madre; o meglio, è la radice femminile dell’opposizione a dissociarsi dal processo inglobativo della purezza e a sperimentare la propria disponibilità in un tentativo di mediazione, che, adeguando il fondamento oppositivo all’essenza mitologica, permetta alla figlia di sopravvivere e a se medesima di cogliere il frutto di un’impossibile liberazione. Questa Madre ha un’esistenza del tutto ambigua, vive apparentemente sospesa e priva di orientamento. Trasferita la sua verginità nell’ostinata rinuncia della figlia e sepolto chi quella figlia appunto le ha dato a prezzo di una verginità, tenta ora disperatamente di ricondurre ad unità la propria esistenza cercando un contatto con il più disponibile degli uomini. Ma tale disponibilità Don Giovanni la deve appunto alla sua essenza mitologica e l’unione dei due nelle vicinanze di un letto è quanto di più problematico si possa immaginare. Il rito, in questo caso, è ridotto al minimo e la fisicità stessa dei corpi è come interrotta e stralunata in una serie di stacchi brevissimi e di piani molto ravvicinati, senza ‘prospettiva’. Lo spettatore perde l’orientamento, giacché i frammenti non sembrano riferibili alla logica del materiale profilmico e dell’ “azione”, ma coagulano secondo un ordine astratto, interno al film e alla costruzione del mito.
Una rilevanza ci sembra importante per cogliere, questa volta a livello espressivo, un senso in più dalla struttura formale. L’atteggiamento angosciato della Madre (una Lydia Mancinelli perfettamente utilizzata nella sua grande dote appunto “materna” di accogliere tutti i figli – significati – della possibile fiaba e restituirsi poi come figlia ella stessa agli occhi dello spettatore, in una sorta di intimità molto compromettente) sottende, in quel volto pacatamente illacrimato, la purezza di una coscienza votata alla disponibilità, pronta ad accogliere, non per amore ma per dissoluzione, la dissolvenza del mito e il tramutarsi dell’astratto in concreto. Questo il suo martirio, questa la sua sofferenza. Se si identifica, lo vedremo, finisce in un’immagine speculare impotente e solitaria; se cerca un rapporto, coltiva in sé la fuggitiva presenza di una vita che entrando in lei esce dalla propria costituzionalità e si concretizza in un fiato senz’anima.
Anche Don Giovanni esprime nel volto un’angoscia, un martirio. Egli accoglie l’aiuto della Madre non perché sia indispensabile al fine che si propone, ma semplicemente perché è costretto ad intrattenere rapporti col mondo. Il problema è che per farlo deve rinunciare alla propria identità mitologica e auto-dissolversi nella fisicità del personaggio. Il suo programma, in fondo, è l’annientamento di sé. La sua sopravvivenza come mito è legata all’instaurazione di un rapporto con altri miti, ma, all’atto della verifica, ciò comporta la vanificazione della polarità mitologica e la concretizzazione in essere individuale. La Madre è impegnata nella sua opera di “corruzione” nei confronti della Bambina (elemento oppositivo), apparentemente a favore del Mito (Don Giovanni), in realtà solo per sopravvivere. La sua azione, legata alla presenza di Don Giovanni, si rivolge alla figlia perché costitutivamente non sopporta il rapporto diretto né il rifiuto di esso e, vivendo a metà, cerca nella capitolazione della Bambina il contatto mediato che da sola non sa ottenere.
Primo atto di mediazione.
Muoversi tra i due poli del mito (Don Giovanni e Bambina) richiede alla Madre tutta la sua abilità e capacità di sdoppiamento. Su una base costante di sofferenza e di dubbio angoscioso, la Madre si avvia verso la figlia che sta “suonando” il piano, osservata da Don Giovanni, seduto in una poltrona alle sue spalle e in attesa che la situazione prenda corpo. L’atteggiamento della donna è sospeso ad un filo sottilissimo: uno sguardo in più, un’espressione meno sfumata, un passo, un gesto e tutto l’equilibrio cadrà irrigidendo la difesa della Bambina e la solitudine distruttiva di Don Giovanni. Verso di lui ella deve comportarsi come se fosse completamente alle sue dipendenze, chiedendo con gli occhi il suo assenso per ogni minima iniziativa: la scena è minuziosamente preparata e l’azione dovrà svolgersi secondo le regole del rituale, con precisione e senza errori. Verso la figlia il comportamento della Madre dev’essere ancora più accorto, poiché l’inganno rischia di distruggerla proprio come figlia qualora non venga accolto per buono. Parliamo di inganno in quanto anche noi siamo prigionieri di una mitologia; in effetti, il contesto non lascia spazio né alla bontà né alla malvagità, né alla luce né alla tenebra, ma accoglie in una specie di vasto e profondo grembo ogni determinazione contraria. Le ragioni che muovono il rito di Don Giovanni sono complesse ed evidenziarne una o l’altra è solo dovuto alle leggi della scrittura lineare L’estrema cautela con la quale la donna conduce il suo atto è dovuta alla coscienza della fragilità e inconsistenza del suo stesso essere e non è certo semplice indecisione. Percorrendo in senso opposto il corridoio rosso colmato precedentemente dalla Bambina nel suo momento di fondazione, la Madre sa che sta andando verso la composizione di un delicato equilibrio. La sua iniziativa di ridurre le distanze tra sé e la figlia porterà ad un incontro a tre con Don Giovanni, il quale non per niente ha già acceso il sigaro.
È dunque un momento nascente, che condurrà alla fase centrale del film, in cui assisteremo al fallimento dell’integrazione degli elementi. Anche l’ambiente, finora dettagliato in funzione motivante, appare unitario e fisicamente disponibile per un’azione rituale inserita in uno spazio significativo. Sui due lati minori ed opposti, sono il pianoforte e il letto (La Bambina e la Madre); lungo il corridoio tappezzato di rosso, sono disposti lateralmente tavolini con vasi, vasetti, servizi da tè, pasticcini e chincaglierie. Tutto è immerso in una fitta ombra, che rende i colori cupi e corposi, quasi a contraddire l’astrattezza della situazione.
La Madre si accinge dunque a restituire alla figlia il bacio ricevuto all’inizio. Nel corso della sequenza, scopriamo che il suo corpo è coperto solo sulla metà anteriore, da un vestito nero, accollato e composto, quasi da religiosa; posteriormente, la donna è nuda, mostrando appunto la sua doppia disponibilità. Man mano che il rituale procede, gli stacchi si fanno meno lineari e acquistano un’organicità più complessa. Ma l’alternanza fitta dei piani, la ripetizione delle inquadrature e perfino gli scavalcamenti di campo non hanno qui un significato di rottura, di frammentazione, bensì assumono una funzione costruttiva. Si crea in tal modo una specie di suspense del procedimento, per cui, non avendo il piano-sequenza, che ci condurrebbe per mano all’interno dell’azione; e non avendo una logica di stacchi, di entrate e di uscite tradizionali secondo una corrispondenza classica di punti di vista, siamo chiamati a misurare le nostre capacità percettive direttamente sul contesto, prima di ogni riferimento extrafilmico. La romanticheria musicale ci è offerta a fittizia e ironica riparazione dei ‘turbamenti’ di nostre attitudini. L’intersezione antinaturalistica dei piani costruisce la sequenza in modo in. La ripetizione costituisce un accumulo di significato senza tuttavia produrre un senso piramidale, una tensione progressiva. La struttura non fa posto all’emozione, tutta affidata, questa, al colore e alla colonna sonora, che propongono una ‘ricchezza’ convenzionalmente corposa e tutt’altro che esaustiva. Si è parlato tanto del ‘Barocco’ di Carmelo Bene. A noi sembra che il ‘Barocco’ sia usato qui come un dato oggettuale più che in funzione stilistica attiva. Si tratta piuttosto dello sforzo di vivere il problema espressivo per liberarsene. L’artista avverte la convenzionalità del codice e drammaticamente (per lui) la problematizza trasferendola sul piano esistenziale (dell’opera).
Mentre dunque Don Giovanni in primissimo piano e nell’ombra osserva la scena, la Madre continua a baciare la Bambina cercando di indurla ad interessarsi alla terza persona. Questa, però, diviene un’assenza nel momento stesso in cui finalmente l’elemento oppositivo decide di puntarle gli occhi addosso. La poltrona di Don Giovanni è vuota e il tentativo di mediazione è fallito. Ciò crea un senso di smarrimento, un vuoto momentaneo: è come se all’interno del sistema mitologico si fosse aperta una falla. Ora, si sa che l’universo del mito sopporta ed anzi esige rapporti con la storia solo se filtrati e mediati attraverso appunto la rigidità di un super-codice: l’immissione improvvisa e sregolata di tensioni non preventivamente convenzionate renderebbe molto precario il funzionamento del ‘sistema semiologico secondo’. Abbiamo dunque una ‘naturale’ reazione appunto in direzione della messa-in-scena e della pronta ricostituzione del mito. L’atto è realizzato attraverso una caparbia ricostruzione del rito, ma la non partecipazione dell’elemento oppositivo (la Bambina continua a ‘suonare’ il piano) crea serie difficoltà.
Il rito è quello del tè, la fatica di rimuovere le convenzioni porta al rifiuto: bere il tè, mangiare pasticcini e girare cucchiaini diventano gesti senza senso, veicoli vuoti di una comunicazione in fallimento. Quando poi, in questa danza faticosa e invischiante del Mito e della Mediazione, la donna viene sorpresa dall’elemento oppositivo in un ennesimo atteggiamento di metafora morta (mette le rose nel vaso), la sequenza si rompe (il vaso cade) e la Mediazione si identifica.
Identificazione della mediazione
“Si poteva credere che fosse da rappresentare semplicemente un libretto d’opera…”, commenta ironicamente la voce fuori campo in inglese. Si tratta, invece, della rappresentazione di un’opposizione mitologica; e dal contrapposto degli elementi, costruito rispettando scrupolosamente le regole del gioco, risalta una sottintesa violenza a quelle regole, le quali, appunto perché sfrontatamente evidenziate, lasciano lo sguardo (la fantasia) libero di volgersi ad altre prede. Identificarsi in questo processo è partecipare alla mediazione di un atto impossibile, che vorrebbe immobilizzare nel presente l’immagine di un’esistenza drammaticamente tesa verso passioni sconosciute. Il presente ha un’intensità tragica e l’immagine si blocca lì, ma per lasciarsi dietro (o davanti, in fuga) la coscienza di un linguaggio secondo, secondo e segreto, noto all’artista e intraducibile per noi. “Così – dice la voce – la storia vera si perde nel vento”. La rosa non è vera: Don Giovanni fa per prenderla, ma la mano si chiude nel nulla e l’ombra della Madre si rivela per una visione speculare.
La riflessione sul piano delle parvenze chiama direttamente in gioco l’artista, che non può più celarsi dietro la struttura del mito, ma deve identificarsi in essa, a rischio della propria pelle. Nel momento in cui, al vanificarsi dell’immagine speculare, cogliamo l’identità della Madre-Mediazione, la chiusura dell’universo mitico diventa chiusura dell’universo filmico e la solitudine di Don Giovanni ci appare come la disperazione di un artista, creatore di miti e sognatore di libertà.
Secondo atto di mediazione
Entra nel film la presenza concreta di Carmelo Bene, fattore protagonista del mito e precursore del suo superamento. Non dimentichiamo come la Bambina sia rimasta ancora al suo posto, vicino al pianoforte, inespugnabile cittadella di putridumi codificati. Il secondo atto di mediazione, dopo il primo fallimento e dopo la faticosissima e rischiosissima ricomposizione rituale, si pone ad un livello di ulteriore pregnanza. Rimane l’intervento della Madre dalle due facce (vestita/nuda), ma questa volta Don Giovanni in prima persona conduce la messa in scena ed esibisce la propria arte, dichiaratamente, non come camuffamento di un fine nascosto ma come ultima risorsa esistenziale. La madre si avvicina ancora alla figlia e cerca con il solito atteggiamento complice di farle alzare gli occhi, non più verso Don Giovanni bensì verso lo spettacolo di marionette e di maschere che si agitano in primo piano davanti a lei creando forme ombre e colori quasi astratti.
Il trapasso di Don Giovanni a Carmelo Bene è in questa immedesimazione tecnico-semantica, per cui solo nella semiosi del film si può riconoscere la sofferenza del Mito e il tentativo di risolverlo in un contatto unificante. La forma del rito si esplicita in forma artistica e non a caso la difesa della Bambina diventa più ardua e mostra qualche punto di debolezza. Tuttavia, Don Giovanni-Bene non riesce ad organizzare lo spettacolo in modo da violentare la chiusura dell’elemento oppositivo. Il suo movimento si svolge sullo stesso asse su cui ruota l’interesse della Bambina. Due cerchi concentrici sono, alla fine, il risultato ideale, la testimonianza schematica della compiuta serie di ‘recite’.
Ad ogni recita, Don Giovanni-Bene sposta il teatrino e il tavolino con il lume di quel tanto che possa servire a mutare la prospettiva della rappresentazione. Tuttavia, questi spostamenti producono il loro effetto di mutazione solo su di noi spettatori, mentre la Bambina continua a voltare le spalle allo spettacolo col semplice accorgimento (ma è un accorgimento?) di spostarsi anche lei su se stessa. Su questo doppio movimento, chiaramente percepibile nelle sue ritmate frazioni, si articola ancora una volta la forma cinematografica della reinvenzione dello spazio-tempo in stacchi brevissimi, primi e primissimi piani che risolvono in colore il mescolarsi delle forme geometriche e riconducono la sequenza ad un senso drammatico unitario sul tema del mito della vita e dell’arte. In questa fase, si capisce come l’elemento di mediazione abbia perso molto peso ed infatti la donna s’è ridotta in disparte, distesa su un divano, nuda e pittorica, risolta in ‘forma aristocratica del dolore’. La stasi della Mediazione comporta, d’altro canto, proprio l’irrimediabile involuzione dell’iniziativa spettacolare, la quale termina appunto con l’amara rassegnazione del ‘burattinaio’: “Ma tu non puoi crescere, perché i burattini non crescono mai: nascono burattini, vivono burattini, muoiono burattini”.
Identificazione del mito
Qui è l’attacco di una presa di coscienza del proprio statuto e della conseguente identificazione scenica di sé come ‘avversario culturale’. Fallito il contatto con (l’annientamento del) l’elemento oppositivo, la rappresentazione non può vivere, ormai, che in una dimensione soggettiva. Don Giovanni-Bene, stremato, è disteso a terra. In ‘soggettiva’ scopriamo i piedi della Bambina che è venuta a constatare la fine del suo seduttore. Don Giovanni si rialza e muovendosi con grande fatica tenta di ricominciare lo spettacolo, ma rimane prigioniero dei fili (del suo progetto) dei burattini.
A questo punto, il mito sembra completamente devitalizzato. Da una parte, la Mediazione, ridotta a immagine ‘estetica’ di se stessa, non mostra più iniziativa; dall’altra, il Mito si vede svuotato del suo stesso fondamento. Assistiamo ad un estremo tentativo di contatto, questa volta con la propria mediazione; in una grande ‘lotta’, tra fili di ferro, gridi disperati e mugolii di piacere, si forma un inviluppo di materiali caduchi tale da non lasciar prospettive di soluzione: “Ho visto il tuo babbo che si fabbricava una barchetta per venirti a trovare…”. Don Giovanni-Bene continua a rappresentare il suo dramma, ma quel gran mare in tempesta non è affrontabile con una barchetta. Un ‘gong’ impietoso mette fine alla scena e possiamo considerare la ‘crocifissione’ consumata. Sullo stacco, la Bambina giocherella col suo crocifisso d’argento. Dalla mancata affermazione del Mito nasce, attraverso il recupero di tutto un armamentario simbolico in funzione conoscitiva, la ricerca della propria identità. Si va dalla ‘visione’, speculare e narcisistica, di sé come Mediazione (Don Giovanni vede il volto della donna allo specchio, fa per baciarla, ma lei scompare) al duello col duplicato, mentre la sinistra è impegnata a tener buona la statua (l’antico Convidado de piedra?) che vuole uscir fuori dall’armadio.
I termini del mito sono ormai completamente risolti in un significato Stilistico-cinematografico. Dal duello vero e proprio passiamo ad una sorta di spettacolo astratto, senza verosimiglianza prospettica. L’articolazione mitologica è tutta trasferita al livello ‘artistico’ e, giustamente, la Bambina cessa la sua funzione oppositiva per assumere quella di spettatrice; gioca, intanto, a comporre figure col suo rosario.
Integrazione non-integrazione nell’arte
Ora il pericolo è quello dell’integrazione nell’arte e quindi di una pseudosoluzione sotto forma di mistificazione dei dati culturali. Si tratta, dicevamo all’inizio, di fornire all’immagine il senso di un atto. Ovviamente, non di un atto puro e semplice: di un atto con un senso. Don Giovanni ha finito per trasgredire l’oggettualità del rito proponendo se stesso come artefice (artista) del mito in una rappresentazione che ne ha messo a repentaglio la sopravvivenza, giacché il mito non sopporta di annullarsi in una forma individuale. Di qui la necessità di trovare all’arte uno sbocco alternativo, che dall’integrazione degli elementi culturali tragga l’ipotesi di una disintegrazione di essi per un rimando trasgressivo ad un panorama altro, non già pronto e funzionante, ma da inventare e progettare secondo fantasia. Tale procedimento di dialettica integrativa-disintegrativa è messo in atto da Don Giovanni-Bene appunto nel momento in cui ogni tentativo di attivare la mitologia usando i suoi soli meccanismi si dimostra fallimentare.
Se le immagini artistiche, sottoposte al controllo anche indiretto del sistema mitologico, rivelano i limiti di un metalinguaggio chiuso e improduttivo, ecco l’urgenza di riscattarle proiettandole in un ‘fuori’ immaginario e concretamente stimolante. Ma questa operazione sarà possibile solo dopo essere giunti al limite estremo dell’integrazione, poiché è appunto su quella soglia che potrà verificarsi la condizione necessaria per tale sviluppo e ribaltamento: l’identificazione dell’elemento oppositivo. A quel punto, il Mito nel suo complesso si guarderà, per così dire, allo specchio e, non avendo più segreti da mantenere, rifiuterà il rito, producendo dal buio un estremo e vitale bagliore di luce. Andiamo, dunque, verso l’integrazione ‘artistica’ degli elementi.
La Bambina, che ha assistito all’identificazione di Don Giovanni (il duello) ed ha visto perdersi nel buio fluttuando i vani oggetti di una ritualità decaduta (le piume), sta già cominciando ad acquistare un minimo di coscienza. L’inquadratura la contiene non più come ‘recinto’ sicuro e protettivo, ma come limite negativo. Gli spazi e gli oggetti assumono ruoli molto precisi, ma su un piano analitico e non compositivo. I gesti si fanno ambigui. La fitta segmentazione delle sequenze risponde ad un lucidissimo programma di scomposizione. Il riapparire di Don Giovanni dopo la crisi dell’identificazione sembrerebbe ricondurre ad una convergenza tematica già scontata. Ma la costruzione formale della sequenza crea una situazione nuova nel senso suesposto, per cui la tensione non è più verso una possibile soluzione del contatto; l’interesse è trasferito dal piano (mito)-logico al piano dell’operatività della semiosi. Il senso delle inquadrature è tutto impiantato ed esaurito in un’evidenziazione di rapporti formali.
La rigida codificazione di elementi significanti, specialmente lo specchio, il lume e le finestre colorate, irretisce la situazione in un ambito semiotico, per così dire, diedrico, dal quale sono impedite fughe di senso e nel quale, se mai, è possibile ogni altro afflusso significativo. Il silenzio della colonna sonora è tutt’altro che una mancanza, svolge anzi funzioni di perfetta complementarietà rispetto alla ‘esplosione’ delle successive inquadrature. Qui siamo precisamente al momento della massima ambiguità e anche della massima chiarezza. Mentre il Mito nei suoi elementi oppositivi viene coltivato in una specie di neutralità spazio-temporale, o meglio in uno spazio e in un tempo completamente convenzionalizzati e privi di riferimenti esterni ( tutto è immerso nella penombra), viene evidenziata proprio con il mezzo cinematografico (che ha sostituito in un certo senso la funzione mediatrice della donna-Madre) la connotazione ‘interiorità’, a cui, dal presente apicale punto di vista, possiamo ricondurre tutte le sequenze precedenti, escluso forse il Prologo. Il brevissimo controcampo è infatti l’unica alternativa possibile, in tutto il film, al punto di vista soggettivo. Il ‘linguaggio secondo’ di Don Giovanni-Carmelo Bene si pone come alternativo allo sguardo della macchina da presa e, in ultima analisi, al nostro sguardo. Da questo momento, l’impossibile sforzo a cui ci aveva chiamato l’autore (immedesimarci nel suo discorso di riduzione soggettiva del mito) diviene normale condizione di lettura. Messaggio-recettore. Ora sappiamo che quell’universo non è ‘tutto’, sappiamo che ci è data la possibilità di ‘vederlo’.
Nell’universo chiuso del pianoforte, dello specchio, del lume e del candeliere, si realizza ora l’integrazione-non-integrazione. È un processo in negativo, bloccato in una serie di variazioni di rapporti geometrici che tolgono al materiale il suo valore di referente simbolico per giungere al puro enunciato formale. Il ‘rientro’ dell’elemento di mediazione non ha infatti alcuna incidenza contenutistica, neanche a livello mitologico interno. La Madre partecipa con tutto il resto ad una specie di livellamento ontologico, sulla cui base oggetti e persone sono letteralmente trasformati in procedimento cinematografico. Nel contesto vertiginoso di stacchi, un accenno di piano-sequenza sta a testimoniare il momento di massima integrazione e quindi il punto di avvio della conseguente disintegrazione. Essenziale la funzione dello specchio, rivelatore di immagini e dispensatore di ruoli nel fitto intersecarsi di piani e di corrispondenze.
Identificazione dell’elemento oppositivo
La sequenza termina attenuandosi nel movimento quasi della Madre che si ritrae ormai rassegnata. Tutta la parte successiva, che pure sembrerebbe una ripresa dei tentativi di contatto attraverso un’ulteriore ricostituzione del Mito, conduce in realtà all’identificazione dell’elemento oppositivo. È anzi proprio la sfacciata teatralità della messa in scena di Don Giovanni-falso-prete-e-falso-Cristo a creare una più forte motivazione di rigetto non solo nella Bambina ma anche nella Madre. L’apparente disponibilità di questa, che si spoglia e si mette a letto mentre Don Giovanni con un crocifisso appeso al collo cerca di sedurre sua figlia, assume piuttosto un senso di passività irrimediabile.
Si produce così una fatale incrinatura nel meccanismo del mito. Come per una reazione a catena, la Bambina smette di ‘suonare’ il piano e incrocia le braccia, raddoppiando la staticità della situazione. Il suo vestito di piccola santa ha uno scatto sul dietro e si apre lasciando vedere le spalle. È un primo livello di identificazione (Bambina-Madre) che, mentre produce la parziale soddisfazione di Don Giovanni, che applaude, scatena l’improvvisa solidarietà tra elemento di mediazione ed elemento oppositivo. Quegli applausi, infatti, suonano come schiaffi, poiché non è permesso al Mito di compiacersi dello spettacolo della propria dissoluzione. È automaticamente rinascere: gli schiaffi producono il vagito del neonato, mentre fuori campo una voce maschile ricorda agli spettatori le parole shakespeariane che all’inizio erano state mostrate quasi come tavola delle leggi. Ora questa voce è la voce del dio che presiede alla rigenerazione del Mito.
Nel grembo stesso della Bambina Don Giovanni vede riprodursi l’opposizione: “Così, mamma, fu una sera. Lui stava nella grande poltrona così, poi s’alzò ed io ebbi la grande fortuna di sedermi al suo posto; poi volli alzarmi e non mi riuscì. Allora sentii, mamma, che portavo un bambino”. Con questa dichiarazione della Bambina l’identificazione è compiuta.
Epilogo
La spirale dei rapporti tra gli elementi costitutivi del Mito si chiude in se stessa, sulla linea di un baratro senza fondo e senza possibilità di risalita. Ma c’è Carmelo Bene. Quel che non è riuscito all’arte di Don Giovanni riesce all’arte di Carmelo Bene. Sarà lo scatto di un gesto, la potenza di un atto a testimoniare l’efficacia di una scelta artistica e rivoluzionaria, poiché rifiuta e rivolge la mistificazione dell’immagine quando l’immagine nasca come sterile riproduzione di una sostanza mitica oscena e omicida. Agli ultimi bagliori dello specchio in frantumi – “Copulation and mirrors are abominable because they multiplicate the number of human beings” – si oppone il nero non più contenuto della cornice. È questo nero la luce, mentre lo specchio ci ha dato ombre e bagliori di ombre.
Franco Pecori Il buio nello specchio, Bianco e Nero, n. 11/12, novembre-dicembre 1973
Carmelo Bene ha tratto il Don Giovanni dal mito Le plus bel amour de Don Juan, narrato da Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly, romanziere e critico legittimista e cattolico della fine del XIX secolo.
Le regie cinematografiche di Carmelo Bene sono sette: Hermitage (corto,1968), Nostra signora dei Turchi (1968), Capricci (1969), Don Giovanni (1970), Salomè (1972), Un Amleto di meno (1973), Riccardo III (1977).
1 Novembre 1973