120 battiti al minuto
120 battements par minute
Regia Robin Campillo, 2017
Sceneggiatura Robin Campillo, Philippe Mangeot
Fotografia Jeanne Lapoirie
Attori Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel, Antoine Reinartz, Félix Maritaud, Ariel Borenstein, Aloïse Sauvage, Simon Bourgade, Médhi Touré, Simon Guélat, Coralie Russier, Catherine Vinatier, Théophile Ray, Jérôme Clément-Wilz, Jean-François Auguste, Saadia Bentaïeb.
Premi Cannes 2017: Grand Prix.
Primi anni Novanta. I 120 battiti al minuto del cuore sono anche quelli che segnano il ritmo binario della musica in discoteca, un ritmo che presceglie la semplificazione dell’ansia del contatto il più diretto ed esclusivo con l’oggetto del desiderio, bypassando le mediazioni e gustando l’esito a-fraseologico del non-swing. Il piacere e il dolore (due facce, una) si fondono direttamente cancellando la mediazione dello sviluppo e non chiedono altro che la riflessione del risultato. Blues nella smemoria, free jazz di là da venire (trapassato, tagliato), rock sdato. E’ un ambito ristretto dell’esistere, in cui i corpi (cuore che pulsa) cercano soddisfazione nell’appagamento, trasgrediscono la gabbia culturale con enfasi critica e contestativa, in assenza (mancanza?) di pertinenze adeguate nel contesto storico/sociale prescrittivo e autoritario. Chi se ne ricorda? Chi se ne importa? Oggi quel ritmo è indice acustico, non più un modo di vivere/sentire. L’indice segna la “presenza” dello sballo, avverte, sottolinea, approva e certifica l’altro. E l’altro, compiaciuto di sé, dilaga, cancella prospettive. Ma allora, nei primi Novanta, il dum-dum era di punta, malefico e salvifico, segno di Amore e Morte. A ripensarci, faceva spavento come la vita stessa dei moribondi, dei sieropositivi (Aids) di cui la società psico-farmaceutica rallentava la cura e come la “voglia di vivere” degli stessi malati, affascinati dal proprio consunto desiderio ideale. Il cortocircuito, la scossa del destino evitabile, la contraddizione della società protettrice e lassativa, produsse una fase d’impegno civile che Robin Campillo (presente a Venezia Orizzonti 2004 con Les revenants prefigurazione fantascientifica di possibili convivenze tra morti e vivi) ha creduto di dover raccontare con tutto il sentimento possibile, con la sconvolgente passione di un cineasta insaziabilmente affamato di “impressione”. Il segno più significativo del film è nell’omogeneità del valore estetico, nel perfetto livellamento (produttività-riproduttività) delle immagini – audio/video – e del portato ideale del contenuto e della sua forma emo-traducibile. Le battaglie propagandistiche degli attivisti di Act Up-Paris traducono con efficace quasi-immediatezza un bisogno non di semplice sopravvivenza bensì di apertura dell’esperienza, di trasgressione progressiva non decodificabile in sole istanze protocollari. Le sequenze della quotidianità del gruppo, fatto l’inventario dei regolamenti interni e delle strategie comunicative verso l'”esterno”, aprono la fantasia verso un mondo tutto da godere, nella libertà delle sensazioni e dei sentimenti: utopia tattile, se vogliamo, ma con la condizione del baratro prossimo, della fine da tramandare. I membri di Act Up-Paris contano gli attimi che li separano dalla fine mentre proiettano nella voluttà della storia un loro desiderio pulsativo e un loro diritto sociale. E’ in questa fusione estetica che il film di Campillo trova il proprio orizzonte anche filosofico. Un amore è sempre un amore che muore, un amore è “contagioso” ma ha il diritto, anche sociale, si controllare il proprio contagio, di rendersi praticabile e godibile. Messaggio dai possibili risvolti ultraproblematici in una società ancor oggi in tali prospettive tutt’altro che aperta. Molto bravi gli attori, sia nella parte descrittiva delle azioni del gruppo, sia – specialmente Nahuel Pérez Biscayart (Sean) e Arnaud Valois (Nathan) – nei momenti di profondità sentimentale ed erotica. Vita/Morte e Politica trovano un corpo in cui articolarsi e da cui estrarre le proprie carenze frenanti (multinazionali, Gay Pride e quant’altro). Il corpo, stavolta, ha forma di cinema.
Franco Pecori
5 Ottobre 2017