Il tagliagole
Le boucher
Regia Claude Chabrol, 1969
Sceneggiatura Luciana Mascolo, Pierre Gauchet, Michel Dupuy, Claude Chabrol
Fotografia Jean Rabier
Attori Stéphane Audran, Jean Yanne, Rober Rudel, Mario Beccaria.
Rivedere Il tagliagole in un “petit d’essai” ci è servito ad arricchire in un certo senso l’idea che avevamo sul film di Chabrol. Abbiamo infatti potuto utilizzare per un riscontro di tipo strutturale l’irritazione dei “tifosi del partigiano”. Ci spieghiamo: certi frequentatori di sale d’essai distinguono ormai solo due tipi, il “partigiano” e il “fascista”. Si sentono alternativamente applausi e fischi all’apparire di tali figure sullo schermo. Nel caso che manchino o non siano sufficientemente “neorealistiche”, i “tifosi del partigiano” non si divertono, si irritano e protestano. Protestano non cercando il proprietario della sala, ma “dialogando” direttamente con i personaggi del film, quasi pretendessero da essi una sorta di sottomissione. Già nel ’29, Ejzenstein (colui che aveva affermato essere Sciopero una «vittoria ideologica nel campo della forma») definì il contenuto come un principio di organizzazione, ma l’equivoco derivante dalla lettura (non consapevole) del contenuto come stereotipo non accenna ad attenuarsi. Nel Tagliagole, appunto, il consumatore di “gialli”, si trova spaesato fin dall’inizio, con la scena del banchetto nuziale, dove tutto si svolge secondo i canoni del film di costume, secondo uno sguardo antropologico. L’intento apparente della fedele ricostruzione “atmosferica” dell’ambiente provinciale non è altro che uno stereotipo, usato per un discorso che lo trascende e quindi lo valorizza oltre la meccanica del prodotto. Non attendiamoci stimoli per una suspense deterministica. Proprio l’iniziale andamento atipico pone il film di Chabrol su un piano di ricerca tematica: la profondità dei personaggi ci obbliga ad immergerci nella loro consistenza esistenziale e sociale. La suspense è quella della vita, della vita non semplicemente fotografata, ma ricreata col cinema. La scena del banchetto, dietro la facciata di un’ironia bonaria e paesana, si presenta come una sorta di paradigma, in cui troviamo gli elementi per la lettura di tutto il film. A cominciare dalla descrizione dell’ambiente sociale, indispensabile per dare un senso al racconto. Non a caso siamo in un paesino della provincia, non a caso assistiamo ad una festa di nozze. Nel contesto che Chabrol ha voluto scegliere (scelta sottolineata dalle panoramiche che contrappuntano la storia lungo tutto il suo arco), ogni membro del gruppo gioca il suo ruolo, indicando dietro ai fatti la situazione che li fa nascere. Una tipicità in negativo rispetto al contesto è quella di Hélène, anzi della « signorina Hélène », la giovane direttrice della scuola. Non è del paese: ha scelto la piccola provincia come difesa di una sua incapacità ad amare. E’ seduta vicino a Popaul, il macellaio reduce dall’Indocina . Li unisce, al momento, l’arrosto fumante, che Popaul s’incarica di tagliare: la bestia l’ha ammazzata lui! Hélène ama la buona carne e si stabilisce così il primo legame. Dall’altro lato del tavolo, gli sposi: Léon, maestro nella scuola diretta da Hélène, sguardo mite, carattere sottomesso, vittima del destino. Intravediamo quasi già la sua faccia disfatta dal dolore dopo la morte della giovane sposina. Léon è la provincia, la ristrettezza o forse l’eccessiva determinazione degli ideali. Questa provincia accoglie e nello stesso tempo è preda dei due assetati d’amore in fuga dalla vita: Hélène delusa da una precedente passione, Popaul stanco di tanta guerra e di tante macellazioni umane.
La carne, dunque. La carne macellata o mortificata, è in sostanza il tema di fondo. E il contesto, che interagisce e crea situazione. Esempio: la signorina Hélène sta facendo lezione ai suoi bambini. Legge Balzac, ma fuori dalla finestra i bambini scorgono Popaul e spostano l’interesse alla vita immediata. Popaul entra in classe e offre ad Hélène un cosciotto di agnello, come un mazzo di fiori. Questa è con-test-azione. Il cosciotto sarà consumato a casa di Hélène; poi, quando il rapporto della donna e del macellaio sta per definirsi, interviene la freddezza programmatica di lei ad innescare la bomba che sta nel cervello di lui (« a non far mai l’amore s’impazzisce »; « anche facendolo si può impazzire »). La reazione di Popaul, sostanziandosi delle terribili esperienze della guerra, assume caratteri sadici, mentre Hélène continua ad alimentarsi con i compitini dei bambini: « faceva così caldo che l’aria pareva un cappotto ». La cultura è sempre presente nel film come risvolto dialettico del sadismo. Il balletto in costume per i ragazzi, le gite alle grotte con le grafie primitive, la ricerca dei funghi. Tutte fasi a cui partecipa il macellaio, con quel suo occhio malinconico, dolce, di uomo che ama i bambini, la natura, la vita. E i bambini fanno sentire la loro presenza, specialmente in contrapposizione ai poliziotti, che passano sullo sfondo del quadro, sfilando in una sorta di muto avvertimento. Sono i bambini che portano alla scoperta del sangue (il cadavere fresco della moglie di Léon); una goccia ne cade addirittura sul pane della merenda: « Non sono così facili, i sadici », dice il commissario. Da questo momento, il film si riconcilia alquanto con la sua matrice morfologica. Ma sempre rispettando la profondità di un’ottica antropologica . La piazzetta su cui dà la casa di Hélène, buia e deserta nel momento del maggior dubbio circa le responsabilità di Popaul, non è soltanto un luogo classico della suspense, ma è sempre la piazzetta del paese. Mentre Hélène si avventura dentro a quello spazio, lasciandosi la casa illuminata e vuota – porta aperta – alle spalle, noi sappiamo che lo spazio di quella piazza contiene il sonno degli abitanti del paese ed assorbe in una complicità squillante l’ansia notturna dei due personaggi principali. Solo un movimento di macchina abbiamo notato come significativo oltre il normale rapporto sintattico delle inquadrature; ed è il movimento ad “S” all’indietro, che, combinato con l’uso dello zoom, distorce leggermente le proporzioni dei personaggi, cioè il loro rapporto fisico, nel contesto della piazzetta appunto. Ci riferiamo al termine del lungo carrello indietro che accompagna il ritorno di Hélène e di Popaul dal pranzo di nozze verso la casa della maestrina. Quando i due si salutano, abbiamo questo preavviso formale: che la loro contiguità comporta anche un rapporto metaforico. E la piazzetta è sempre al centro del discorso.
Il finale non è, come potrebbe sembrare, un finale a sorpresa. Nel momento in cui si spengono le luci e fuori campo si sente la voce del tagliagole: « signorina Hélène », lo spettatore è chiamato a controllare gli impulsi emotivi e a tirare le somme. Il film, a livello del racconto, non può chiudersi in se stesso. Il suicidio di Popaul nasce proprio dalla logica di una suspense non deterministica, che dilaga e cresce autogenerandosi lungo tutto il film, veicolata dalla situazione tematica e non dagli accadimenti materiali. Il coltello del tagliagole non ci interessa. Ci interessa la sua dolce ironia e quel volto riflessivo, che fino all’ultimo respiro chiede pietà per la morte e ancor più per la vita. La suspense è, allora, tutta nel tragitto all’ospedale: un viaggio ideale, il cui termine è un interrogativo . Cosa pensa la signorina Hélène, seduta fino all’alba sulla sponda del lago? Perché guarda tanto lontano?
Franco Pecori La suspense non deterministica, Filmcritica, n. 224, aprile-maggio 1972
5 Aprile 1972