Free Jazz in Italia 1976
Lontano dal Mississippi
La nuova generazione di musicisti italiani
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Mario Schiano | Tony Rusconi | Gaetano Liguori |
Fino a ieri, come dicevi jazz dicevi Armstrong, la maschera del nero buono che ha trasformato le sofferenze di un popolo nell’allegria di chi ha tempo e soldi per divertirsi. Oltre Armstrong, il vuoto: quattro “appassionati”, patiti collezionisti di dischi e frequentatori di cantine. Il resto era Sanremo. Oggi, decine di migliaia di giovani seguono altri festival, ascoltano Archie Shepp, Sam Rivers, Cecil Taylor. E conoscono bene Schiano, Mazzon, Rusconi, Gaslini, Liguori, ecc. E’ un’altra musica. La vecchia generazione dei Volonté, degli Azzolini, dei Valdambrini e dei Loffredo ha lasciato il posto a un folto gruppo di jazzisti che non vogliono più saperne dei battelli a ruota del Mississippi; giovani che ascoltano il blues e non vanno in estasi, si guardano intorno, consapevoli dei problemi anche non musicali che il fare musica comporta.
“Fino a qualche tempo fa – dice Toni Rusconi dell’Omci (Organizzazione di musica creativa e improvvisata) – il jazz in Italia era emarginato. Attualmente si può partire da situazioni più avanzate, basta con le scelte dei nomi risonanti, bisogna approfondire i rapporti con le masse, con le organizzazioni politiche, coinvolgendo non solo gli specialisti”. Il modo di esprimersi dei nuovi jazzisti italiani è legato alle forme americane più avanzate: “La società capitalistica, lo sfruttamento non esiste solo in America – dice Gaetano Liguori, leader del Trio Idea -, il jazz si può suonare anche con una sensibilità italiana. Il Free mi aiuta a mettermi allo stesso livello con l’ascoltatore e a sentirmi un musicista non astratto”. Alla radice del rinnovamento del jazz nostrano c’è il Free, lanciato dai neri americani negli anni ’60 e ripreso qui da noi in chiave anche politica. “Non era la solita trovatina all’italiana, come vorrebbe qualcuno – afferma Mario Schiano, in prima fila contro certi guardiani del blues in frack -. Nell’Italia pre-sessantottesca quel jazz rifletteva le aspirazioni e le aperture che erano prirpie di tutta la società. Ci fu un’adesione ideologica al Free, perché finalmente ci sentivamo svincolati dalla dozzinale imitazione dei jazzisti americani. Gli anni ’50 erano ormai lontani”.
Niente più jazz del sabato sera, dunque, ma dibattiti insieme alle note, incontri e discussioni con gli studenti, con gli operai, con la gente dei quartieri. La musica è diversa anche sul piano organizzativo, si esce dai teatri tradizionali, si va nelle piazze fino a gremirle, fino a creare anche nuovi problemi: “Nei grossi festival jazz – dice Franco Fabbri, giovane presidente della cooperativa milanese L’Orchestra – ci sono ancora gli effetti del consumismo, ma qualcosa si comincia a fare per non buttare allo sbaraglio i nostri musicisti. Noi della cooperativa, dopo aver suonato, ci fermiamo sempre a parlare, a insegnare l’uso degli strumenti”. Il problema dell’educazione s’è fatto sentite specie negli ultimi tempi, quando ai concerti di massa dll’Umbria, di Pescara, di Bergamo, il rapporto tra il “pubblico” e i musicisti s’è fatto problematico. “Certe grosse manifestazioni – chiarisce Bruno Tommaso, uno dei fondatori, a Roma, della Scuola popolare di musica del Testaccio – fanno pensare ai tempi di Nerone: lo spettacolo e poi tutti a casa. Qui al Testaccio pensiamo che si possa fare qualcos’altro, che si possa mettere la gente in condizione di imparare la musica e di analizzare i problemi connessi”.
Certe carenze organizzative sono da mettere in collegamento con la crisi della critica, la quale nel passaggio improvviso dalla “conventicola” di esperti al fenomeno di massa s’è trovata alquanto spiazzata. Arrigo Polillo, crociano confesso, è il rappresentante più autorevole del vecchio modo di giudicare il Bello e il Brutto. Per anni, a Milano, è stato lui l’unico organizzatore di concerti: “Sono un appassionato – ammette -, presentavo la musica che mi offrivano, che mi piaceva e che non mi faceva rimettere milioni”.
La critica del suona bene delle buone maniere musicali ha sempre guardato al nuovo jazz italiano con sospetto. C’è voluto l’impegno prima di Schiano, di Gaslini e poi degli altri più giovani per agganciare il jazz alla realtà in movimento del Paese. L’ultima stagione, quella dell’estate scorsa, ha segnato la crisi profonda anche dei festival giganteschi, basati sui cartelloni mostruosi, pieni zeppi di “Stelle” internazionali. C’è ora chi sente l’esigenza di un momento di riflessione. Dice Giorgio Gaslini: “Negli ultimi anni, intorno alle nuove tendenze del jazz italiano s’è creato un movimento, varrebbe la pena di farne la storia perché con la nuova creatività è venuto a galla anche il problema dell’educazione”. Infatti la lunga esperienza del festival di Bologna ha dettato a Carlo Maria Badini, Sovrintendente del Comunale, queste considerazioni: “Esiste un diaframma tra posizione politica avanzata e concezioni arretrate in altri settori. Tale diaframma va rotto impostando una serie di iniziative e privilegiando il jazz italiano, che ormai è una realtà”. Il simbolo di certe contraddizioni in atto può essere Guido Mazzon, un jazzista che fa un discorso molto avanzato e che spesso prova l’amarezza dei fischi: “Non sempre – precisa però l’autore di Ed ora parliamo di libertà -, nelle fabbriche occupate non è mai successo”.
L’ironia è l’arma più usata dai giovani jazzisti italiani. A parte Schiano, che ha un patto stretto con Pulcinella, Anche Mazzon, Rusconi, Bruno Tommaso e gli altri, scherzando scherzando, stanno facendo del jazz qualcosa destinato a incidere sulla qualità della vita di migliaia di giovani.
Franco Pecori, Il jazz senza Mississippi, in Giorni, 15 dicembre 1976
15 Dicembre 1976