Il vizio della speranza
Il vizio della speranza
Regia Edoardo De Angelis, 2018
Sceneggiatura Umberto Contarello, Edoardo De Angelis
Fotografia Ferran Paredes Rubio
Attori Pina Turco, Massimiliano Rossi, Marina Confalone, Cristina Donadio, Marcello Romolo.
“Un figlio non è solo delle donne che lo fanno ma delle donne che lo vogliono”. Tenete a mente queste parole e ricordatele ogni volta che vedrete una mamma col neonato in braccio guardare, davanti al mare, il Sole che Sorge. Penserete che la speranza è un vizio benevolo. Immagine e parole sono inequivocabilmente di portata e d’uso universale e possono valere nella prospettiva ideale di una prosecuzione della vita, nonostante le difficoltà in cui versa il mondo, in cui si trovano settori e strati della società, anche in Italia, anche a Castel Volturno (Caserta), la “milza d’Italia”, come la definisce il regista Edoardo De Angelis. Anche il nome della protagonista, Maria, è universale. L’interprete, la brava Pina Turco, moglie del regista, in conferenza stampa non ha faticato a dare a quel nome il valore emblematico di “tutti gli uomini e le donne sulla Terra”. Insomma, concetti validi e incontestabili a prescindere? Traspare dalla sceneggiatura, scritta da Umberto Contarello in accordo col regista, l’intenzione di pescare nella realtà condizioni che, per quanto difficili, supportassero appunto la tesi umanistica, attinta da un sentimento ancestrale capace di trasformare le angosce e le sofferenze degli “ultimi” nel “vizio” della speranza e cioè nel paradosso che ribalta in positivo le avversioni più impietose della vita “nemica”. De Angelis proviene dal successo di Indivisibili (2016). Certe contraddizioni possono risultare positive. Ora lo scenario è una cittadina campana con molte case abbandonate, un territorio debolmente controllato dalla legge, i cui abitanti sono per la metà “irregolari”, fame, droga, prostituzione, donne incinte alle quali qualcuno offre “rifugio” in vista di un traffico redditizio. In inverno, il paesaggio è tetro, umido, fangoso. Col cappuccio sulla testa, una giovane si sposta da un punto all’altro lungo il fiume, insieme al fedele cane, femmina, che ha chiamato Cane. Maria si prende cura della madre Alba (Cristina Donadio) – ritratto pesante di un’incoscienza colpevole – e pensa a far arrivare le donne incinte alla tenutaria di zona, la malefica “zia Maria” (Marina Confalone), filosofa del saper campare nel male. Quando una delle nuove arrivate sfugge al controllo, la protagonista avverte in sé una crisi morale incipiente. E quando realizza di aspettare un figlio da tre settimane, Maria scopre che l’unico uomo su cui si sente di poter fare affidamento è l’ex giostraio Carlo Pengue (Massimiliano Rossi). L’entrata in scena di Pengue, nel contesto finora quasi soltanto femminile, carica il film, di valori estetici marcatamente metaforici (la vita è una giostra, la memoria ne conserva il giro) e, via via, si accentua la scelta estetica di cogliere il “disagio” di quel vivere delle donne – soprattutto straniere “rifugiate” dagli inferi terrestri – nel disperato abbandono di una provvisorietà disorientata, la scelta di fotografare il loro stato secondo una tendenza al Bello, anche paesaggistico, come se ci si volesse garantire l’accettabilità di una condizione inaccettabile. È il solito problema del rapporto linguaggio-realtà, in agguato dietro gli angoli del senso. Passano perfino in secondo piano alcune accentuazioni simboliche come il cavallo nero lasciato libero di andare vero il mare, lo stesso mare da cui nascerà poi il sole della speranza (nell’avvenire?). Le stesse musiche originali, composte da Enzo Avitabile secondo una corretta antropologia culturale, omogenee come sono ai valori espressivi del film, rischiano di proporre la conservazione di una loro bellezza autonoma. Un certo “vizio” è tutto da precisare nei suoi possibili e necessari esiti evolutivi, in funzione di problematiche meno universalmente, a determinate condizioni, risolvibili. [Festa del Cinema di Roma 2018, Selezione Ufficiale].
Franco Pecori
22 Novembre 2018