Iron Man 2
Iron Man 2
Jon Favreau, 2010
Fotografia Matthew Libatique
Robert Downey Jr., Scarlett Johansson, Mickey Rourke, Samuel L. Jackson, Jon Favreau, Sam Rockwell, Gwyneth Paltrow, Olivia Munn, Don Cheadle, Leslie Bibb, Kate Mara, Clark Gregg, John Slattery, Helena Mattsson.
Con il sequel se ne va quel certo sapore archeologico del ferro e rimane quasi soltanto il fracasso effettistico della “protesi ad alta tecnologia”. «Ho privatizzato la pace, la gente mi ama», grida enfatico il miliardario Tony Stark (Downey Jr.) alle telecamere che riprendono i suoi trionfali show. Contornato da ballerine felici e contente, Iron Man si gode il successo della sua impresa “rivolta al bene dell’umanità” trascinando nel trionfo la casa madre Marvel, dal cui fumetto nascono i film sulle gesta del supereroe ferroso. C’è un ostacolo però. Come non aspettarselo? Ai militari americani non va giù che un privato – guarda un po’ – detenga il potere che gli deriva dalla sua invenzione e vedono di buon occhio le aspirazioni un po’ mitomani di una specie di “parente russo” di Iron Man, Ivan Vanko (Rourke), il quale sembra in grado di contrapporre all’armatura rivoluzionaria di Iron Man un’altra invenzione, simile e forse addirittura più potente. Inutile raccontare qui l’evolversi della vicenda, soprattutto perché quel che conta è l’effetto spettacolare, sono gli scontri la cui esasperazione digitale raggiunge saturazioni ragguardevoli. Godimento dell’occhio e di tutto l’apparato sensorio dello spettatore (a tratti tremano le poltrone). Tutto il resto quasi non conta. Passa in second’ordine la morale buonista della favola – difficile pensare, del resto, che gli intenti umanitari possano giovarsi gran che di una propaganda urlata a squaciagola – e tra un boato e l’altro di fanno largo le figure eccellenti del cast, specialmente una straordinaria Scarlett Johansson, sdoppiata in una glaciale e pur provocante interpretazione. Si usa anche accennare all’ironia con cui i protagonisti traducono i loro ruoli riferendoli ad analoghi comportamenti noti ormai sia al grande pubblico televisivo che agli “addetti ai lavori” (impiegati e quadri aziendali). Tuttavia l’umorismo che ne deriva ha una dimensione molto più ristretta rispetto alla valenza delle scene spettacolari. Certe battute e certi ammiccamenti somigliano piuttosto alle “barzellette” che il capo racconta ai dipendenti per far credere loro di appartenere tutti alla stessa famiglia.
Franco Pecori
30 Aprile 2010