Il primo uomo
Il primo uomo
Gianni Amelio, 2011
Fotografia Yves Cape
Jacques Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola, Denis Podalydès, Ulla Baugué, Nino Jouglet, Abdelkarim Benhabouccha, Hachemi Abdelmalek, Jean-Paul Bonnaire, Jean-François Stévenin, Nicolas Giraud, Djamel Saïd, Mohammed Zahir Taifour, Alexandre Delamadeleine, Franck Beckman, Oualahi Messouda, Christophe Dimitri Réveille, Michael Batret, Jean-Benoit Souilh.
Toronto 2011, Premio Fipresci (Critica Internazionale).
Più che primo, primario. L’uomo di Albert Camus è un uomo ideale, a dispetto dell’esistenzialismo, filosofia che coinvolse in parte lo scrittore di origine Algerina, tra la polemica con Jean-Paul Sartre e l’impegno comunista. Nel primo uomo c’è l’essenza dell’umanità, il vivere con sentimento critico – non sia contraddizione e, se dev’esserlo, la si viva come nel cuore della generazione assurda, che rende “possibile” l’esistere senza l’ottimismo della Metafisica – e al centro, il senso di una fatica che le condizioni storiche generano e determinano. “Il primo uomo” è anche il romanzo incompiuto di Camus, l’ultimo, rimasto in forma di appunti per la morte dell’autore in un incidente d’auto, il 4 gennaio 1960. Gianni Amelio è entrato in quell’autobiografia introspettiva, non finita ma molto netta, e vi ha trovato se stesso, non in fotocopia – si capisce – ma nello spirito e nell’assonanza di tempi, sensazioni, ricordi, all’indietro fino all’infanzia. Ed ecco il bambino Jacques (Nino Jouglet) che rivive durante la visita di Jacques Cormery adulto (Jacques Gamblin), alter ego di Camus, in Algeria alla ricerca di persone, luoghi, memorie di 40 anni prima. È il 1957, lo scrittore ha già pubblicato Lo straniero, La peste, La caduta e sta vivendo un momento di profonda riflessione. Va a trovare la vecchia madre (Catherine Sola) e gli torna in mente l’infanzia, la scuola, i giochi con i compagni di classe, la povertà, l’educazione rigida subìta dalla nonna analfabeta, la dolce tolleranza della giovane madre (Maya Sansa) e soprattutto la mancanza del padre, andato nella guerra mondiale e non più tornato. Il “privato” che riemerge dalla memoria non è però staccato dal contesto, non è depurato dal dolore collettivo che il Paese sopporta ancora in quegli anni di incerta e contrastata convivenza tra arabi e francesi. È anzi dal disagio di quella ricontestualizzazione interna che emergono il malessere di una vita incompiuta e la difficoltà di una riconciliazione necessaria ma ancora lontana. La bravura degli attori, tutti gli adulti e specialmente il piccolo Jouglet, è contenuta da Amelio entro i limiti di una miracolosa “non recitazione”, omogenea al senso complessivo della “regia di ricerca” che l’autore persegue dall’inizio della carriera, da La fine del gioco a Il ladro di bambini, a Le chiavi di casa. Il “miracolo” è di un cinema non inquinato da nervosismi formali, ciascuna inquadratura nasce per produrre e per condurre al senso – qui in particolare il senso di una sofferenza espressa, non-raffigurata. Indimenticabile la “presenza” culturale e storica del maestro Bernard (Denis Podalydès), un insegnante che tutti avremmo voluto avere (e non è detto che, negli anni ’40-’50, non l’abbiano avuto in molti). Gli alunni entrano in classe, lo trovano dietro la lavagna: «Non ho fatto i compiti, dice a Jacques che lo guarda con aria interrogativa, mi aiuti tu?».
Franco Pecori
20 Aprile 2012