Il mio nome è Khan
My Name Is Khan
Karan Johar, 2010
Fotografia Ravi K. Chandran
Shah Rukh Khan, Kajol, Steffany Huckaby, Carlo Marino, Douglas Tait, Tanay Hemant Chheda, Harmony Blossom, Shane Harper, Sheetal Menon, Jennifer Echols.
Berlino 2010, fc. Roma 2010, evento speciale.
Cresciuto secondo il principio insegnatogli dalla madre, che vi sono solo due tipi di persone, le buone e le cattive, Rizvan (Shah Rukh Khan, il Tom Cruise di Bollywood) continua a vedere il mondo con occhio scevro da pregiudizi. Il fatto di soffrire della sindrome di Asperges, che si traduce in una lieve forma di autismo, non gli impedisce di applicare alle situazioni quotidiane la sua notevole intelligenza e capacità anche pratica. Indiano di origine, musulmano di religione, il giovane si è trasferito a San Francisco, vive col fratello e con la cognata e si mantiene vendendo cosmetici nei saloni di estetica femminile. È in uno di questi ambienti che s’innamora di Mandira (Kajol), induista e madre di un bambino. Il matrimonio sembra funzionare. Dopo i primi momenti di “sbigottimento”, Mandira impara a comportarsi con Rizvan utilizzando il suo codice di comportamento e integrandolo con la propria simpatia. Khan (da pronunciare usando l’epiglottide, com’egli tiene a sottolineare) non è un tipo facile, vede le cose in modo radicale e diretto, gli è facile scoprire il male anche quando questo si annida in persone che sembrano voler agire secondo Allah. Questo principio di schiettezza “innocente”, applicato alla nuova realtà dell’11 settembre 2001, determinerà una svolta drammatica nella vita della famigliola. Il figlio di Mandira, proprio mentre stava affezionandosi a Rizvan, rimane vittima dell’aggressività insensata di alcuni ragazzi più grandi, prede del nuovo pregiudizio antislamico. Sopraffatta dal dolore, Mandira allontana da sé Khan. Potrà tornare da lei solo quando sarà riuscito a incontrare il presidente americano, giacché la promessa di Rizvan è appunto di andare da Bush per dirgli: «Il mio nome è Khan e non sono un terrorista». Un compito “impossibile”, ma Khan si avvia, zaino in spalla, verso il suo sogno di libertà e di riscatto. O meglio, siamo noi a vederlo così: per lui l’impresa è normale. Sarà un lungo viaggio il suo e meno male che nel frattempo arriverà Obama. Si è pensato a un Forrest Gump del dopo 11 settembre. Si può andare anche più indietro, fino a Jerry Lewis e a quel suo modo “sconvolgente” di usare lo straniamento e l’inadeguatezza del singolo verso una certa società come un modo rivoluzionario di mostrarne l’assurda opacità. Il film di Johar, lungo (165 minuti) e ricco di mezzi, ha il pregio di coinvolgere lo spettatore in discorsi non facili attraverso un piano espressivo “semplice”. La bravura di Khan mantiene il personaggio su un livello di coerenza interna che regge bene l’impatto con la più riconoscibile referenzialità della seconda e ultima parte, quando la società americana si mostra come contesto credibile, senza tuttavia togliere al racconto il suo carattere di favola della realtà.
Franco Pecori
26 Novembre 2010