Il richiamo
Il richiamo
Stefano Pasetto, 2010
Fotografia Guillermo Nieto
Sandra Ceccarelli, Francesca Inaudi, César Bordón, Guillermo Pfenning, Arturo Goetz, Julieta Cardinali, Hilda Bernard, Juan Cresta, Lola Berthet, Viviana Greco, Javier van de Couter.
Villerupt 2010, Premio Amilcar.
Il richiamo del titolo è soprattutto un richiamo cinematografico. La macchina da presa è attratta dal materiale profilmico – sia il piede d’un pollo, sia il dorso d’una balena, l’orizzonte sconfinato della Patagonia o una vecchia barca da rimettere in mare o anche soltanto la mano sulla tastiera di un pianoforte – in maniera necessaria e insieme frammentaria. I particolari vanno a formare un insieme pieno di incognite simboliche e un vuoto di senso compiuto, organico e aperto non solo al respiro dei personaggi ma al complesso delle “cose” visibili e invisibili di cui è costituito il racconto. È certo che Lucia (Sandra Ceccarelli) e Lea (Francesca Inaudi), ciascuna per proprio conto, rispondo a un richiamo che viene dal profondo delle loro vite, diversissime eppure destinate a incrociarsi per un destino di “superficiale intimità” impossibile da definire senza perderne il sentimento, ma ciò che conta di più è la sfida, consapevole a livello di regìa, tra il limite d’un romanzo d’amore e la decostruzione d’una trama affettiva che mentre delinea il proprio progresso sfugge al consolidamento e predilige la fuga. Così sembra, fatto salvo il finale in forma di tango che riapre il gioco di un’esistenza a due (donne), pronta di nuovo – siamo portati a immaginare – a frammentarsi secondo necessità del richiamo. Stefano Pasetto, dopo il primo lungometraggio Tartarughe sul dorso (2005), già intriso di micro-ellissi di montaggio, conferma la sua tendenza alla fusione costitutiva di racconto e visione in un cinema tendente al non detto, un cinema dell’attrazione che si sofferma sugli “oggetti” per la difficoltà (impossibilità?) di definire le “idee”, coglie nei comportamenti il richiamo di un filo conduttore che il cinema non si sente di fermare in una sola immagine. Lucia e Lea, provengono da due storie e da due mondi lontani tra loro, ciascuna con i suoi segreti, con le insoddisfazioni della vita di coppia – bravi i loro due uomini (César Bordón e Guillermo Pfenning) nell’esservi e non esservi, come richiesto dalla condizione “instabile” delle personalità – con i sogni e le depressioni, con gli affetti e i disturbi (in Lucia fino al limite della malattia grave). La sceneggiatura, dello stesso Pasetto e di Veronica Cascelli, pur con qualche cedimento all'”esibizionismo” della discrezione, lascia il dovuto spazio all’indefinizione espressiva, permettendo ai due caratteri di vivere di vita propria. Non in tutte le sequenze il livello espressivo tiene fede alla concezione estetica programmaticamente rigorosa, il risultato sfiora a tratti l’ingenuità, ma è degno di rispetto il tentativo di realizzare dei film secondo una concezione del cinema non standardizzata.
Franco Pecori
11 Maggio 2012