Un lungo viaggio nella notte
Di qiu zui hou de ye wan
Regia Bi Gan, 2018
Sceneggiatura Bi Gan
Fotografia David Chizallet, Jingsong Dong, Hung-i Yao
Attori Tang Wei, Sylvia Chang, Huang Jue, Lee Hong-Chi.
Cina vicina e lontana. Una banalità, certo. Ma poi dipende dal senso che si vuol dare alle parole. Parlando di cinema, un autore nuovo come il trentenne Bi Gan (1939), al secondo film dopo il successo dell’esordio a Locarno (Kaili Blues, 2015), ci dice che il discorso è tutt’altro che concluso, se almeno si voglia tenere ancora in sospeso l’ Adieu au Language di Godard (2014). E figuriamoci poi se il parametro dovessero essere le “piacevolezze” della ulteriorcommedia nostrana, la cui ultima novità consiste nel brindisi “alle cose che ci fanno stare bene”. Questo “viaggio” di Bi Gan – il titolo cinese, traducibile in “Ultime sere sulla Terra”, viene da un racconto di Roberto Bolaño, mentre il titolo internazionale, Long Day’s Journey Into Night, si riferisce al lavoro teatrale di Eugene O’Neill – mostra coerenza con il senso anche teoretico da dare alla sezione del festival di Cannes, Un Certain Regard, nel cui concorso del 2018 era inserito. Il cinema è lo schermo. Lo schermo è “falso”. Una trama, una narrazione? qualsiasi scelta, di genere o meno, di-mostrerà che il rapporto tra film e realtà profilmica trova la sua verità più nella memoria che nella referenza. Quindi largo al sogno. Inutile girare scene che spiegano la linea e i passaggi narrativi. «Questo film – dice il regista – parla semplicemente di un uomo che parte alla ricerca di una donna, ma ciò che volevo cogliere erano le emozioni. Durante le riprese mi sono imposto di non girare sequenze palesemente esplicative. Ho capito che mi avrebbero condotto a realizzare un film puramente narrativo». Tutto ciò non significa che lo spettatore venga proiettato in una dimensione onirica secondo formati “di sogno” convenzionali. La qualità del girato (e del montaggio) è nel mascherare da sogno il reale e il reale da sogno, senza alcun “cartello” indicativo, né esplicito né implicito. Pensiamo, sia pure in maniera indiretta, alla scelta di un Antonioni, di trattare il materiale profilmico tutto alla stessa maniera, lasciando all’obbiettivo la sua specifica (relativa alla dimensione oggettuale) libertà. Immerso in una dimensione fotografica liquida, di cancellazione cosciente della consistenza “fotografica” – video, non “pellicola” – il film naviga nel sogno “condiviso” del protagonista e dello spettatore, in una continua e magica trasmigrazione consustanziale, lungo una consistenza favolosa e insieme attraverso una pratica della ricerca, verificata con metodo, di momento in momento, di inquadratura in inquadratura. Colori, trasparenze, ingombri, sorprendenti volumi e protettive sfumature – anche di sostanza del contenuto, come il configurarsi del personaggio femminile, oggetto della ricerca – sono materia e soluzione estetica, indicazione e riferimento interno, ricchezza per lo spettatore, invitato passo passo a proseguire nell’immaginario, a misurarsi con la propria memoria/cultura. Il film “contiene” elementi di genere, c’è un padre morto, c’è una pistola, c’è l’attrazione di una donna-mistero, Wan Qiwen/Kai Zhen, non a caso due nomi (Tang Wei), c’è il carcere, c’è lo spettacolo (il karaoke!) visto come incubo insolubile, c’è l’angoscia di Luo (Huang Jue), un uomo che non riesce a definire il proprio desiderio, sperduto nella memoria di sé, nella radice paterna i cui frutti restano da chiarire a proprie spese. E c’è l’erotismo, non tanto dei corpi né delle scene quanto del film-immagine, del suo tessuto produttivo di senso che chiama la fantasia dello spettatore alla percezione (Estetica) del mondo e della sua storia (essenza storica dell’immagine). Fa capolino qualche arzigogolo nella tessitura di una stoffa pur meritoriamente artigianale. Non abbiamo parlato di capolavoro, categoria che, per altro, appartiene sempre meno a un quadro di nuove consistenze culturali.
Franco Pecori
30 Luglio 2020