127 ore
127 Hours
Danny Boyle, 2010
Fotografia Anthony Dod Mantle, Enrique Chediak
James Franco, Amber Tamblyn, Kate Mara, Clémence Poésy, Kate Burton, Lizzy Caplan, Sean A. Bott, Treat Williams, Koleman Stinger, John Lawrence, Bailee Michelle Johnson, Rebecca Olson, Parker Hadley, Fenton Quinn, Pieter Jan Brugge, Jeffrey Wood, Norman Lehnert, Darin Southam.
Storia vera? E chi lo sa. O meglio: e chi lo vuole sapere. Sullo schermo che a tratti si triseziona per un effetto grafico un po’ pubblicitario vediamo un giovane escursionista cercare il contatto con la natura. Va in bicicletta e si videoregistra con una piccola telecamera. La vita è bella perché la rete è idealmente disponibile per l’elastico esistenziale, fuori-dentro-fuori-dentro passeggiando per i canion dell’Utah. Labirinto e viaggio interiore, il pericolo di lasciarci la pelle è il lato minore. Lo capiamo quando Aron, il giovane avventuroso, resta incastrato in un crepaccio col braccio destro stretto tra la parete e un maledetto masso precipitato dall’alto. Sopra la profonda fessura uno spicchio di cielo e l’indifferenza della Terra. Dopo pochi minuti di panico, Aron recupera la cama e continua a registrarsi. Adesso il materiale si fa più interessante. E via via il senso del “documentario” svanisce, si entra in una dimensione introspettiva, tra onirica e misterica. Col buio avanza la solitudine e la memoria si apre a una cronologia non lineare. Comunque la sensazione è che non siamo nel dramma realistico, non siamo da vivi nella cassa da morto e non finiremo male come fu per il sepolto vivo in Iraq nel 2010 (Buried, Sundance Festival). Qui Il lato più interessante è la “denuncia” (o autodenuncia) dell’irresistibile attrazione del potere di fissaggio che l’immagine può avere su di noi anche in circostanze estreme. Dal fissaggio all’eternità il passo è più breve di quanto si immagini. Momenti di umorismo e di patetismo si alternano sapientemente e l’abilità di Boyle (regista inglese che va con disinvoltura da Trainspotting a 28 giorni dopo, da Sunshine a The Millionaire) nella variatio delle inquadrature sul “prigioniero” del crepaccio risponde pienamente al gioco dell’immaginazione che man mano diviene allucinogena nelle visioni deliranti di Aron. Ed ecco che lo schermo cede di nuovo alla grafica, torna all’inizio e tutto si aggiusta in una soluzione formale. Destino e forma si coniugano nell’orribile scena risolutiva, in cui dolore e sangue liberano Aron dal cunicolo del suo io.
Franco Pecori
25 Febbraio 2011