Miracolo a Le Havre
Le Havre
Aki Kaurismäki, 2011
Fotografia Timo Salminen
André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Blondin Miguel, Elina Salo, Evelyne Didi, Quoc Dung Nguyen, François Monnié, Roberto Piazza,Pierre Étaix, Jean-Pierre Léaud.
Cannes 2011, concorso.
I reperti documentali, pescati nel contesto di una città-porto il cui solo nome conserva un alone di cinema incancellabile, vanno ad accumulare sostanza poetica per un sogno ideale, per un auspicio sociale, per una pietas antropologica dei nostri tempi. Il richiamo al Marcel Carné de Il porto delle nebbie (1938) non è diretto, ma il realismo poetico francese di quegli anni fa da contraltare prospettico al filtro stilistico postbrechtiano che un autore come il finlandese Kaurismäki (Nuvole in viaggio 1995 L’uomo senza passato 2002 Le luci della sera 2006) impone alla materia, avvolgendo il tema della solidarietà tra poveri e perdenti in una confezione provocatoria, sarcastica eppure dolcissima. Una certa delicatezza nel raccontare fa venire in mente il De Sica di Umberto D (1952) e lo stesso titolo del film ha un’assonanza con quel Miracolo a Milano, Grand Prix a Cannes nel 1951, la cui cifra fiabesca sembra non del tutto casualmente accostabile all’istanza e al tratto narrativo dell’autore di quest’ultimo “Miracolo”. Il Marcel Marx (André Wilms) che a Le Havre lucida scarpe agli angoli delle strade per una sua preferenzialità interiore, di ex scrittore non propenso ai traffici, incarna con la sua maschera austera e insieme trasparente nello spirito umoristico un’istanza insopprimibile di umanità e di giustizia popolare. Istanza che Kaurismäki traduce nell’uso estremamente “economico” delle inquadrature, nel loro montaggio essenziale. L’apparente staticità – qui il “miracolo” anche cinematografico – contiene un dinamismo produttivo di senso, ben oltre le singole sequenze. Il contenuto, che nella sostanza potrebbe essere considerato banale e risaputo (al porto arrivano navi con i container pieni di stranieri clandestini), si nutre della tensione poetica capace di attingere all’umorismo disperato per arrivare al miracolo nel quale il protagonista non ha mai smesso di credere. Non si tratta soltanto dell’insperata guarigione della moglie Arletty (Kati Outinen) bensì di tutto il contesto dei comprimari, che si muove in un’armonica “compassione”, fino a permettere al bambino africano (Blondin Miguel), salvato e assistito da Marcel e protetto dai vicini di casa e dal comprensivo commissario Monet (Jean-Pierre Darroussin), di continuare il suo viaggio verso la mitica Londra.
Franco Pecori
25 Novembre 2011