Bright Star
Bright Star
Jane Campion, 2009
Fotografia Greig Fraser
Abbie Cornish, Ben Whishaw, Kerry Fox, Thomas Sangster, Paul Schneider, Eddie Martin, Claudie Blakley, Gerard Monaco, Antonia Campbell-Hughes, Samuel Roukin, Samuel Barnett, Jonathan Aris, Olly Alexander, Alfred Harmsworth, Theresa Watson, Vincent Franklin, Eileen Davies, Adrian Schiller, Amanda Hale, Licinda Raikes, Roger Ashton-Griffiths, Sebastian Armesto, Sally Reeve.
Cannes 2009, concorso.
John Keats (Whishaw), poeta romantico inglese morto di tubercolosi a soli 25 anni (Londra 1795 – Roma 1821), amò fino all’ultimo Fanny Browne (Cornish), studentessa di moda e brava ricamatrice. Con la madre (Fox) e con i due fratellini, Samuel (Sangster) e Margaret “Toots” (Martin), ospite insieme a Keats dell’amico del poeta, Charles Brown (Schneider), Fanny non volle rinunciare all’amore nonostante John fosse povero, malato e quindi, nell’Inghilterra vittoriana, non in grado di sposarla. Trasferitosi a Roma grazie ad una colletta degli amici, Keats non riuscì a guarire. Le lettere dei due amanti, pubblicate dopo la morte del poeta, fecero scandalo. Questa storia c’entra poco con il film di Jane Campion, diciamo nel senso di quella che sarebbe una troppo scontata lettura “romantica” di un risaputo destino sentimentale. La regista neozelandese (Un angelo alla mia ravola, 1990, Lezioni di piano, 1993) conferma la sua concezione poetica del cinema, mostrando ancora profonda sensibilità e lucida intelligenza nell’interpretare situazioni e problematiche anche lontane secondo una visione attuale e non imitativa, non semplicemente “a specchio” della “realtà”. Il film illumina appunto come una “fulgida stella” il sentimento di John e Fanny, in una sorta di racconto traslucido, che chiarisce con puntiglio analitico le ragioni del fare poesia e del vivere poeticamente. I due protagonisti si parlano, si amano, scelgono, restando come astratti in una sorta di continuo resoconto del poetare; scena dopo scena, dimostrano l’importanza della parola poetica nella sua piena valenza esistenziale/storica. E insomma nella sua “razionalità” intrinseca. La figura di Fanny è in tal senso determinante. È la ragazza a introdurre in forma dubitativa il tema della poesia. Lo scetticismo iniziale e poi la sua continua richiesta di “lezioni” investono il poeta, per altro nel pieno del suo “insuccesso” rispetto alle mode editoriali del tempo, di una responsabilità che restituisce, per così dire, all’arte il pieno merito della trasmissione del senso. Mentre, rispettando “filologicamente” la figura storica, Jane Campion fa dire a Keats che la poesia è «un’espressione al di là del pensiero», mantiene saldamente ancorato proprio al “pensiero” il sentimento di Fanny per John: un pensiero cinematografico, fatto di nessuna concessione alla “magia” delle immagini e controllatissimo nella pur insistita proposta metaforica, sempre mantenuta nel “non detto”, contro il probabile. La regista, in un certo senso “taglia e cuce” come la stessa protagonista fa con le forbici, con l’ago e con il filo. E Fanny non si convince fcilmente della validità della poesia, continua invece a chiedere spiegazioni. Tanto da indurre Keats, costretto dalle circostanze della vita a separarsi da lei, a salutarla così: «Non posso dire dimenticami, ma vorrei significare che al mondo ci sono delle impossibilità». Altro che sogno romantico.
Franco Pecori
11 Giugno 2010