Piccoli crimini coniugali
Piccoli crimini coniugali
Regia Alex Infascelli, 2016
Sceneggiatura Francesca Manieri, Alex Infascelli
Fotografia Arnaldo Catinari
Attori Sergio Castellitto, Margherita Buy
L’amore è anche memoria, i sentimenti passano nella mente, nei suoi impulsi e la mente ha anche e forse soprattutto una storia. Sergio Castellitto e Margherita Buy sono marito e moglie, chiamati a rivivere sul set cinematografico la pièce teatrale dello scrittore belga d’origine francese, Éric-Emmanuel Schmitt. Nella prima sequenza vediamo il rientro a casa della coppia. La moglie accompagna il marito, il quale è rimasto in ospedale per alcuni giorni dopo un incidente che lo ha colpito alla testa. L’uomo è chiaramente spaesato: ha perso la memoria, non ricorda nulla del suo rapporto con la moglie, la casa gli risulta un ambiente estraneo. Assisteremo al progressivo disvelamento di un mistero che, procedendo la pièce, perde la nettezza dei contorni e converge verso un ribaltamento a catena di verità e menzogne. I due personaggi vivono un confronto a tratti anche in modo aggressivo, più spesso condotto sulla difensiva dei reciproci ruoli, un confronto che lascia trasparire i limiti delle convenzioni di cui può vivere un matrimonio e più in generale un rapporto a due. Ovvio che non si debba generalizzare, va tenuto presente che la coppia è di livello sociale e culturale medio-alto, basta osservare il tipo di casa. Castellitto è nei panni di uno scrittore di gialli di successo, la Buy ama l’arte e la fotografia in particolare. Durante gli scambi, alla ricerca – vera o falsa – della memoria perduta, traspaiono problematiche di autenticità e profondità dei tempi, la discussione viaggia sul filo di una convenzionalità volta al rigido rispetto di un target di comprensibilità facilmente identificabile. E’ il limite dello stesso testo di partenza, l’ambiguità estetica è traguardo negato. La regia di Alex Infascelli si muove con agilità negli spazi dell’appartamento, con passaggi adeguati alla sceneggiatura (il regista ha buona pratica di video musicali e conosce la relativa arte della variatio), gli attori lasciano trasparire la dovuta consapevolezza dei pericoli del passaggio da teatro a cinema, tanto che smussano i toni anche nei momenti di massima tensione, quasi tendessero a mostrare di essere lettori di un testo più che personaggi incarnati. Sicché la dipendenza teatrale del lavoro non pesa sullo spettatore che guarda lo schermo. Del resto, sarebbe davvero stucchevole riprendere ancora una volta il tema teorico-critico circa il rapporto tra le due forme d’espressione. Il ciak batte sempre per un’inquadratura. Non ci sembra nemmeno il caso di tirare in ballo il cinema americano, per esempio John Cassavetes, per un certo modo di trattare i mariti e le mogli: sono cose lontane, con l’improvvisazione degli anni ’70, con la speranza di un cinema a venire. Ci sarebbe da parlare del finale, ma non possiamo dire altro se non che l’ultima immagine sarà calda.
Franco Pecori
6 Aprile 2017