Sacro GRA
Sacro GRA
Regia Gianfranco Rosi, 2013
Sceneggiatura Gianfranco Rosi
Fotografia Gianfranco Rosi
Attori documentario
Premi Venezia 3013 concorso, Leone d’Oro
Il premio della Mostra veneziana ha sottolineato una novità statistica, la prima volta di un film “documentario” in concorso per il Leone d’Oro. Ma il problema di considerare prodotto creativo artisticamente valido un film costruito con materiali ripresi “dal vero” e secondo un tracciato la cui sceneggiatura non risponda a una finzione di genere tradizionale è teoreticamente così poco significativo da sfiorare la banalità. Sin dalle origini, la distinzione Lumière-Méliès sarebbe potuta sembrare non essenziale rispetto alla novità delle immagini in movimento. Il fatto che poi si sia trascinato per un tempo insopportabilmente lungo l’equivoco analfabetico dell’obbiettività dell’obbiettivo ha giovato magari all’articolazione dei generi in funzione bottegaia – e di conseguenza anche ideologica (basti pensare agli elementi di fiction contenuti nei telegiornali) -, ma non ha certo attenuato l’irrilevanza della questione. E’ ovvio che il rapporto cinepresa/”realtà” produce comunque il documento del rapporto e che ogni film sarà comunque un documentario almeno di se stesso (esempi più espliciti possono essere i film “storici”, specialmente in costume). Vi sono stati poi momenti nella storia del cinema (la Nouvelle Vague francese, per esempio) in cui la “vita sul set” si è mostrata con maggiore trasparenza, “resistendo” al montaggio fino a risultare determinante nella costruzione del senso. Inutile addentrarsi. Vediamo il film del “documentarista” Gianfranco Rosi. La sigla GRA significa Grande Raccordo Anulare e si riferisce all’anello autostradale (68 km) che cinge la capitale italiana. Una connotazione di misteriosa sacralità (“infernale”) ce ne venne già dal film di Fellini, Roma (1972). Ora però il rimando è da correggere verso una linea poetica depauperata del sotterraneo sarcasmo felliniano e più vicina, se mai, a certi rinvii universaleggianti di stampo malickiano. Rosi colleziona personaggi e momenti di vita còlti durante il viaggio perlustrativo nei dintorni del Raccordo (tre anni passati a fare avanti e indietro con un camper), ma le “figure” che compongono Sacro GRA si fermano al piano referenziale, deformato/deformante, rispetto a una “realtà” più ampia, la quale resta lontana ed estranea al film. Manca la trasfigurazione, che invece valorizza la visione felliniana, la metafora è indicata, non prende corpo. Mentre le figure di Fellini vivono la loro dimensione autonoma – grave fu l’errore della critica al tempo de La dolce vita, di vedere il film come un “affresco” mentre si trattava anche lì, lo disse più volte l’autore stesso, di una visione interiore -, con Rosi siamo alla constatazione di una “mostruosità” esistente, registrata “alla sprovvista” e illusoriamente proposta come metaforica in sé. Entro tali limiti, sono godibili alcune situazioni umoristiche, mentre altre ci sprofondano in angosciose tetraggini, mescolandosi senza filo conduttore in un quadro impressionistico, esso sì, tipico del nostro momento storico.
Franco Pecori
19 Settembre 2013