Baciami ancora
Baciami ancora
Gabriele Muccino, 2009
Fotografia Arnaldo Catinari
Stefano Accorsi, Vittoria Puccini, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria, Giorgio Pasotti, Marco Cocci, Sabrina Impacciatore, Daniela Piazza, Primo Reggiani, Francesca Valtorta, Adriano Giannini, Valeria Bruni Tedeschi, Sara Girolami, Andrea Calligari.
Uno di quei film di cui si dice: fatto bene. Vi sono registi che il cinema lo sanno fare e registi che sul set stentano persino a trovare un posto alla macchina da presa. Muccino il cinema lo sa fare. Sa risolvere al meglio dell’attrazione emotiva la dinamica della sequenza e, ancor prima, il taglio dell’inquadratura; e sa che gli stacchi, visto il dominio circostante del consumo pubblicitario, non devono durare che una manciata di secondi. Ritmo, ritmo. E trattandosi di commedia, ritmo situazionale. Il resto lo fanno le parole: frasi brevi, tensione ripetitiva, argomenti strozzati in gola, attinti dall’usato o dall’outlet degli sceneggiati di qualità. È la cucina degli avanzi per un mondo che digerisce con forza acida anche il più indigesto dei menu. Si sa che viviamo in un contesto aggressivo, che respiriamo inquinamenti molteplici, non ultimo quello dei toni aspri, segnali equivoci di sopravvivenza nella finzione per lo più televisiva – teleschermo come finestra – del contrasto “necessario”. Guai a raccontare una storia per filo e per segno. Meglio spezzarla e intrecciarla, moltiplicarla come in una stanza degli specchi. Invenzione come meccanismo tattico, filosofia forte (rigida) vestita da sincerità trasparente e opportuna riconoscibilità. Tutto chiaro. Ma fermiamoci a riflettere. Baciami ancora ha un evidente carattere di sequel (da Ultimo bacio, i trentenni dieci anni dopo), struttura oggi – ma non da oggi – ultrapresente tanto da sembrare imprescindibile nella progettazione e nella produzione cinematografica. È quella sorta di ansia del pieno che il cinema ha avuto fin dagli inizi, quando si è trattato di colmare, illusoriamente, i vuoti della vita “reale” appunto con la sua rappresentazione cine-fotografica. Il mito della riproduzione piena della realtà. È il lato Lumière del cinema. Méliès è sull’altra faccia della luna. Quando il mito si è fatto ripetizione, è nato il genere. L’illusione del pieno si è raddoppiata, alla riproduzione è subentrata la sequenza, sorta di garante di veridicità. Il tranello è tuttora insito. Mentre a vedere il già visto ci rassicuriamo, lo autorizziamo a sostituire la realtà con la tipicità, giacché in effetti il mantenimento della nostra tranquillità è affidato alla ricorrenza delle aspettative. In sintesi, non ci sentiamo diversi, il rispecchiamento funziona da tranquillante. In questo senso il genere commedia, più degli altri generi, serve da riparo. Muccino ha insistito, nelle dichiarazioni per presentare Baciami ancora, sulla portata esaustiva dell’impianto narrativo: «È un film – ha detto – sul ritorno alle radici, sul ripartire, sul rimettersi in gioco, sulla capacità di sognare, sull’amore per la vita, per i propri figli e per quello che sappiamo di poter essere». È palpabile come ciascuna di tali de-finizioni chiami ad una scomposizione della pertinenza, ripetto alle diversissime situazioni di vita e di storia entro cui può essere collocabile. E allora Muccino taglia corto e conclude: «È un film sul senso della vita». Un po’ troppo e un po’ poco, ma sufficiente e anzi esaustivo dentro al taglio di genere, dove la tipicità intervenga sulla serialità con mano pesante. Qui bisognerebbe entrare nella sceneggiatura e verificare le scene anche nella loro resa espressiva. Ma lo spettatore accorto non troverà difficoltà a seguire secondo competenza le storie di Carlo, Giulia e Anna, di Marco e Veronica, di Paolo e Livia, di Adriano, di Adele, di Alberto, di Simone. Gli attori sono bravi. La fotografia di Arnaldo Catinari è all’altezza delle ultime sue prove premiate (Parlami d’amore, L’aria salata, La felicità non costa niente), la musica è ben scelta (si va da Jacques Brel a Stevie Wonder, da Doris Day a Mina, a Ornella Vanoni e, chicca finale, alla canzone di Jovanotti sui titoli di coda). Insomma il prodotto c’è. Al di là delle stressanti apparenze di inesauribili intrecci e sovrapposizioni, le storie sono semplici semplici: somigliano alle storie che il quotidiano ci ripropone con tutti i mezzi (di comunicazione). Se ai personaggi manca di continuo il fiato, se respirano con affanno, è perché la griglia ferrea della sceneggiatura li tiene intrappolati in un continuo singulto di frasi accennate, di urla contrapposte, di introspezioni mancate, di didascalie non rischieste, di libertà impossibili da sognare. Però il ferro serve, dà sicurezza. Tranquilli. La macchina da presa tutto questo lo sa e s’ingegna come meglio può (Muccino il cinema lo sa fare) a rispettare la sofferenza di un ciak atroce, la nostalgia (il pubblico il cinema lo sa guardare) d’un romanzone infinito, l’apparenza d’un dolore artefatto, aprospettico, smerigliato e smerlettato. «Baciami ancora» è la giusta espressione raccogliticcia che lega con un nastro di raso il romanticismo riassuntivo d’un mazzo di fiori finti (non è parola cattiva, sono così belli da sembrare veri). Dopo tanto urlare e soffiare – un paio di ore e una ventina di minuti – nell’apparenza di questioni private ma tanto decisive da rimandare implicitamente al tema sociologico più generale, il bicarbonato liberatorio si rivela efficace. Uno del gruppo la fa finita (ma poco male, fin dall’inizio si poteva intuire) e uno se ne va in Brasile a coltivare il caffè. Se a lui sta bene, va bene. Ma gli altri restano e superano tutti i dolori. Per loro c’è la consolazione dei figli, da ritrovare, da fare, da riutilizzare in sequenza, appunto. Per la pace della famiglia, per l’amore ritrovato, per la trasgressione negata, per il pentimento recuperato, per la speranza di un nulla nella felicità del tutto svanito. Svanito e ritrovato, riavvolto, spento e riacceso, rappreso, rigoduto prima di perderlo ancora con un altro bacio che prima o poi arriverà.
Franco Pecori
29 Gennaio 2010