Dark Shadows
Dark Shadows
Tim Burton, 2012
Fotografia Bruno Delbonnel
Johnny Depp, Eva Green, Michelle Pfeiffer, Bella Heathcoate, Jonny Lee Miller, Chloe Moretz, Gulliver McGrath, Helena Bonham Carter, Jackie Earle Haley, Bella Heathcote, Christopher Lee, Ivan Kaye, Susanna Cappellaro, Alice Cooper, Ray Shirley.
Ce la ricordiamo, non ce la ricordiamo: ma che importa? La serie televisiva americana da cui il film di Tim Burton è lontana e perduta nel tempo (1966-’71) e la sua memoria non conta al fine di giudicare questo nuovo Dark Shadows. Nuovo? questo, se mai, il punto. Mentre Tv e cinema più stanno separati e meno probabile è il danno per il cinema, vale la pena di considerare il portato “illuminista” del film con Johnny Depp rispetto alla tematica “vampiro” in generale e, in particolare, all’influenza oscurantista che negli ultimi tempi può avere avuto sul pubblico giovane una certa trasformazione del genere classico. Pensiamo alla saga Twilight, dove le ragazze sono messe di fronte alla scelta di una forma di vita anziché l’altra, il ragazzo reale e il vampiro “buono”. Tim Burton non propone simili alternative. E comunque il Barnabas/Depp lotta proprio contro la vendicativa Angelique/Green, configurando una specie di manifesto del giusto rifiuto verso la stregoneria in funzione amorosa. Il vampiro non è vampiro per destino ineluttabile e storico ma per la reazione della strega non corrisposta. Dalla presa di coscienza del proprio stato, “provvisorio” anche se esteso per secoli nel tempo, deriva una sorta di istanza disvelatrice che nel protagonista si manifesta sia a livello di sceneggiatura (Seth Grahame-Smith) sia di interpretazione attoriale. Le sottolineature espressive che di solito Depp usa specialmente a vantaggio della propria caratterizzazione vanno qui più fruttuosamente a vantaggio dell’esplicito rapporto dell’attore col pubblico. Burton lascia volentieri che il vampiro Depp sia quasi la guida per una nostra visita a casa Collins, una guida che fa ciò che il bravo insegnante dovrebbe fare a scuola, rendendo gli allievi consapevoli dei passaggi e delle relazioni anche le più lontane e meno ovvie tra elementi diversi della storia. La famiglia matriarcale (Michelle Pfeiffer è Eliabeth Collins) e la sua trasformazione imprenditoriale nel viaggio dall’Inghilterra al Maine (la questione delle fortune aziendali e delle possibili eredità), la figlia minore Carolyn (Chloe Moretz) che segna gli esiti culturali nelle forme del paradosso pedagogico tipico del 1971 e dintorni. E via dicendo, ciascun componente è il punto di riferimento per un possibile riesame della vicenda secondo un’ottica di aggiornamento. È pur vero che, a tratti la chiave dell’esplicito ironico si materializza in didascalia (punta massima è l’apparizione del mito shock rock Alice Cooper in persona durante la festa Happening celebrativa della rinascita dei Collins) rischiando di attenuare l’efficacia complessiva della forma pop, ma sostanzialmente il “confronto” interno della visione seicentesca con l'”attualità” dei nostri anni Settanta produce in alcuni momenti un divertimento non poco istruttivo. «Se un uomo può diventare un mostro, allora un mostro può diventare un uomo». Perfetto il tentativo grottesco di “trasfusione” del sangue – l’idea viene alla psichiatra di famiglia Julia Hoffman (Helena Bonham Carter). Più scontata l’attribuzione di bellezza sexy alla strega (Eva Green). Per il resto, la famiglia Collins è sufficientemente standard per apparire verosimile nel contesto televisivo in cui nasce, ma Burton ne corregge a dovere i connotati amplificando la spettacolarità degli spazi e utilizzando gli effetti digitali con proprietà di linguaggio.
Franco Pecori
11 Maggio 2012