Romanzo di una strage
Romanzo di una strage
Marco Tullio Giordana, 2011
Fotografia Roberto Forza
Piefrancesco Favino, Valerio Mastandrea, Michela Cescon, Laura Chiatti, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Giorgio Colangeli, Omero Antonutti, Thomas Trabacchi, Giorgio Tirabassi, Fausto Russo Alesi, Denis Fasolo, Giorgio Marchesi, Andreapietro Anselmi, Sergio Solli, Antonio Pennarella, Stefano Scandaletti, Giacinto Ferro, Giulia Lazzarini, Benedetta Buccellato, Alessio Vitale, Bruno Torrisi, Francesco Salvi, Diego Ribon, Marco Zannoni, Fabrizio Parenti, Gianni Musy Glori, Gianmaria Martini, Giovanni Visentin, Corrado Invernizzi, Paolo Boananni, Claudio Casadio, Giovanni Federico, Angelo Raffaele Pisani, Bob Marchese, Davide Paganini, Maurizio Tabani, Edoardo Natoli, Francesco Sciacca, Marcello Prayer, Giovanni Anzaldo, Angelo Costabile, Lorenzo Gioielli, Vittorio Ciorcalo, Gianluigi Fogacci, Irmo Bogino, Alessandro Bressanello, Roberto Sbaratto, Riccardo Maranzana, Riccardo Von Hoenning Cicogna, Miro Landoni, Lollo Franco, Giovanni Capalbo, Edoardo Rossi, Luca Zingaretti.
«La strage di Piazza Fontana non ha colpevoli. Dopo 33 anni di processi tutti gli imputati sono stati assolti. Nel 1992 la Procura di Milano riapre il caso e incrimina Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio e altri neonazisti veneti vengono condannati in primo grado e assolti in Appello e Cassazione. La Cassazione ha riconosciuto la colpevolezza di Freda e Ventura ma li ha dichiarati non più giudicabili. Ai familiari delle vittime sono state chieste le spese processuali per la morte di Giuseppe Pinelli. La Questura è stata assolta da qualsiasi responsabilità. Per l’omicidio Calabresi sono stati condannati Leonardo Marino, Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, ex-esponenti di Lotta Continua. Aldo Moro è stato assassinato dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Per la giustizia italiana tutti questi casi sono chiusi». È l’inizio dei titoli di coda del lavoro che Marco Tullio Giordana ha dedicato all’intricata e non risolta vicenda, culminata il 12 dicembre 1969 nell’esplosione alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano. Le vittime della strage furono 17 e diverse decine i feriti. Lo stringato elenco di conseguenze formali posto alla fine del racconto ha un’efficacia non meno provocatoria (non è una parolaccia) dello stesso “romanzo” che il regista ha costruito sulla base di un’accurata e perfino puntigliosa documentazione. Per Giordana si tratta della quarta “indagine sceneggiata”, dopo Pasolini – Un delitto italiano (1995), dopo I cento passi (2000), sulla rivolta di Peppino Impastato contro il capomafia Tano Badalamenti, dopo La meglio gioventù (2003), sui 40 anni di storia italiana dal ’60 al 2000. Traspare la medesima passione civile verso le sorti della nostra vita di cittadini in un contesto democratico mai abbastanza definito. Sulla strage di Piazza Fontana le difficoltà da superare erano in partenza non meno difficili che ovvie, soprattutto per la stratificazione ideologica sulle ipotesi e sulle interpretazioni che nel tempo non ha smesso di crescere e che tuttora, a ben vedere, non cessa di condizionare il processo della democrazia. Giordana ha seguito il metodo della raccolta ragionata dei documenti, rappresentandola in uno stile pacato, equilibrato senza per questo rinunciare a punte interpretative dal tono non certo urlato ma deciso e inequivocabile, come per esempio l’accenno alle responsabilità di ben due presidenti della Repubblica, prima Segni e poi Saragat, nella gestione di passaggi delicatissimi. La sceneggiatura, di Sandro Petraglia, Stefano Rulli e dello stesso regista, è scandita in dieci capitoli, che non solo segnano gli avvenimenti dall'”autunno caldo” del 1969 all’uccisione del commissario Luigi Calabresi il 17 maggio 1972, ma espongono la composizione del drammatico mosaico in forma didascalica e non per questo priva di un complessivo pathos interno. È una partecipazione emotiva non semplicemente scaricata sulle spalle dei singoli personaggi ma affidata alla loro configurazione verosimile. In questo senso spicca la bravura degli attori, specie Valerio Mastandrea, un Calabresi molto consapevole, e Pierfrancesco Favino, un Giuseppe Pinelli umano e interprete di un’anarchia non intellettualistica. L’episodio oscuro della sua “caduta” dalla finestra durante l’interrogatorio in questura è centrale e tuttavia Giordana non lo sottolinea con particolari furberie emozionali, ce lo propone anzi come momento quasi straniante che preserva la lettura lucida e non mistificatoria del tema successivo, della Ragion di Stato: la cinepresa si sposta su Aldo Moro (Fabrizio Gifuni) e Giuseppe Saragat (Omero Antonutti) a colloquio, il primo ritiene che la strage sia stata di destra («Qualcuno ha pensato di poter sfruttare le bombe anziché prevenirle»), il secondo è per una soluzione non “destabilizzante” dell’inchiesta. Il dialogo si conclude con Moro che mostra di aver ben compreso: «Non faremo nulla, li costringeremo a coprire tutto come i gatti con gli escrementi. Ma lei, presidente, ove mai dovesse avvertire intorno alla sua persona il muoversi di spinte o ti tentazioni autoritarie, le ignori»; e la risposta di Saragat colpisce in profondità: «Aldo, sarebbe meglio che mi venisse un colpo come a Segni, vero?». Chiude Moro alla sua maniera: «Sono venuto per farti gli auguri. Buon Natale, presidente». È uno degli esempi di come il film eviti la piatta didascalia e però mantenga una misura non “fredda” nella successione dei quadri. In più di una sequenza si avverte, è vero, l’attenzione al destino dell’opera, adatta anche al piccolo schermo e a una fruizione “domestica” dei contenuti, tuttavia il “romanzo” non scade in semplificazioni eccessive e conserva in sé la carica di interrogativi sufficiente a non far slittare l’interesse dalle problematiche referenziali verso il “carattere” dei protagonisti. E comunque Giordana non rinuncia a un sottofinale giustamente inquietante, che non ci lascia riposati e tranquilli. Mentre noi ci chiediamo come mai, in Italia, vi possa essere stata una credibilità – sia pure indotta – dell’azione anarchica tale da compromettere a fondo il cammino della democrazia, ecco il prefetto Federico Umberto D’Amato (Giorgio Colangeli) venire a “tranquillizzarci”. Parla a Calabresi ma sembra voler arrivare fino a noi: Le bombe a Piazza Fontana – dice – possono anche essere state due, ma la più grossa non era degli anarchici, l’hanno messa «la parte oltransista della Nato e alcuni settori delle nostre forze armate, alcuni ordinovisti veneti pagati dagli americani, qualche funzionario dell’ambasciata Usa». Una favola? Certo, ma c’è «un fondo di verità», una verità che – dice D’Amato – «non si può dire perché la guerra non è finita».
Franco Pecori
30 Marzo 2012