Appaloosa
Appaloosa
Ed Harris,2008
Fotografia Dean Semler
Ed Harris, Viggo Mortensen, Renée Zellweger, Jeremy Irons, Timothy Spall, Lance Henriksen, Tom Bower, James Gammon, Ariadna Gil, Gabriel Marantz, Timothy V. Murphy, Corby Griesenbeck, Bob L. Harris, Cerris Morgan-Moyer, Bobby Jauregui
Roma 2008, fc
Facile e difficile, come la pittura di Jackson Pollock. A 8 anni dal primo lungometraggio (Pollock, realizzato nel 2000 e visto in Italia nel 2003), Harris torna alla regìa (e al ruolo di protagonista) scegliendo di nuovo, da una parte, la “facilità” – questa volta in chiave di genere (la porta del western sembrerebbe spalancata) – e dall’altra la “difficoltà” di ri-praticare una forma interpretandola in profondità, al di là delle superficiali apparenze. Appaloosa è una piccola città di minatori – New Mexico, 1882 – dove succede una delle più scontate serie di accadimenti relative al cinema western. I cittadini, disperati per i continui soprusi del boss Randall Bregg (Irons), si affidano allo sceriffo e al suo vice (Virgil Cole/Harris e Everett Hitch/Mortensen). Le cose sembrano andare per il verso giusto quando entra in scena la bella vedova Allison French (Zellweger) e la situazione si complica. La più facile osservazione che può venire in mente oggi sul perseguimento del genere western dopo la grande stagione manieristica italiana è che forse non se ne sentiva il bisogno. E invece il film di Harris riafferma decisamente il “diritto” estetico di riprendere la via del western eliminando proprio quel manierismo che ne aveva segnato il declino. Ora, per dirne una, le pause dell’azione, in termini di inquadratura-tempo e di legami tra inquadrature e di scelte prospettiche delle inquadrature, suggeriscono il senso di una riflessione e cancellano (in un’estetica della cancellazione), senza semplificare, le tracce del disimpegno formale. Il racconto procede diritto (che non vuol dire a senso unico), come comandato da un destino narrativo chiaro, modo divenuto inusuale da un po’ di anni. Ciò vale anche nei momenti in cui i “fatti” vengono “turbati” dalle ironie (profonde, leggere). Né per questo i colpi di pistola, di fucile e i pugni si trasformano in cannonate sonore. E l’ira rimane ira, non vola turbinando negli spazi-effetto. L’intreccio tra attrazione Allison-Virgil e cattura/processo di Randall porta con sé la crescita di una tensione ovvia nel contenuto quanto esemplare nella semplicità dello sviluppo. Tutto sembra trasparente, eppure tutto è irrisolto – che non vuol dire non finito: l’ambiguità della vedova, le convinzioni dei protagonisti (facile/difficile perfino una classifica dei tre, sceriffo, vice, bandito – anzi dei quattro, parità per Randall), il percorso del treno nella prateria “presidiata” dal puma che entra nel quadro sbucando dalla quinta in un lampo secco e geniale, la compagnia e la solitudine della coppia virile di fronte alla tripla incidenza di Allison (non escluso il ruolo di Katie/Gil, sponda sentimentale che non consola veramente Everett). Vietati l’informale e il barocco, la forma classica si impone “nonostante” la presenza fantasmatica di un Truffaut-pensiero, coscienza cinematografica irreversibile da Jules et Jim in poi. Ma non è che un soprassalto. Dietro l’angolo, non lontano, in un West non facile, veglia Ford.
Franco Pecori
16 Gennaio 2009