Salomè
Salomè
Carmelo Bene, 1972
Fotograsfia Mario Masini
Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Donyale Luna, Daria Nicolodi, Veruschka.
L’uomo tende ad identificarsi con la sua dimensione mitologica. La civiltà in cui vive non è che il portato di una complessa costruzione simbolica, una macchina che modifica le stesse funzioni biologiche. Parlare dell’uomo è parlare dei suoi miti: esistere è accettare questa dimensione. Carmelo Bene esiste, ma dalla sua consapevole scelta traspare l’ansia di un angoscioso rifiuto, il dubbio di una rivolta disperata. È un vivere al limite della propria esistenza: da una parte l’annullamento della mitologia, dall’altra il rischio della solitudine metafisica. Trovare l’equilibrio è rischiare la pelle: la vita si sperimenta bruciando la propria vita, non c’è altra scelta. Questo è il dramma che Bene continua a portare sullo schermo, di volta in volta con un referente diverso; si tratti di Erode e di Salomè o di Don Giovanni, poco importa rispetto al metodo, rispetto al lavoro cinematografico e al giudizio che da esso traspare. Del mito di Salomè interessa più l’essere mito che non il significato particolare. La mitologia viene indagata nelle sue strutture, poiché solo le modalità d’esistenza possono rivelarci il senso dell’essere. Salomè, allora, funziona da metafora vivente per una presa di coscienza della storia, delle sue chiusure o autoimpatti, delle sue costituzionali “falsità”. La tensione a conoscere gli oggetti da soggetto porta alla delusione di una risposta alienante, alla mortificazione della spinta nativa nella palude del rito. Solo la presa di coscienza (dolorosa) di tale degradamento può indicarci la strada di una rivoluzione da compiere. Ed è appunto al rito (il banchetto di Erode) che Bene ci invita, per mostrarcene gli elementi più significativi, per farci partecipi di un’analisi condotta con mezzi artistici. La corrosione del rito assume forma poetica grazie alla consapevolezza della parallela e complementare dissoluzione del rito, enunciata fin dalla prima sequenza del film: «non c’è altro amore che l’amore di Dio» (il mito per eccellenza, la cupola sotto cui viviamo da millenni) diviene «non c’è altro amore che l’amore» e poi «non c’è altro». È una specie di crisi portante, che libera nel suo attuarsi tutta una serie di corrispondenti opposizioni (ognuna delle quali trae vita dalla “falsità” dell’altra): il Cristo e l’anti-Cristo, la luna e il sole, il caldo e il freddo, il profetismo e l’orgia, la vita e la morte, il trasparente e l’opaco. La figura di Erode si muove, anzi si dibatte con grande sofferenza nell’infernale contesto dove ogni concetto diventa un riferimento stereotipo, ogni giudizio una frase fatta. È l’inferno tutto terreno di un’esistenza non dialettica, di una prigionia formale pietrificante. Al suo interno, la fantasia dell’artista cerca il proprio sprigionamento, aspira ad un programma liberatorio e sovversivo, mentre soggiace alla continua mortale minaccia del già detto e del banale: una corsa in discesa che sembrerebbe inarrestabile, alimentata com’è da tutto un inventario di simboli che si legano l’un l’altro per via del loro innato cannibalismo. Ma Carmelo Bene trova il modo di uscire da questo inferno: ne esce restandoci immerso fino al collo ed offrendo la propria condizione al “pasto” dello spettatore, avvertendolo ad ogni istante che il pranzo sarà molto indigesto. In termini espressivi: la complessità della composizione (a tutti i livelli: sonoro-visivo, inquadratura/montaggio, colore) e il frammentarsi della percezione in un arduo paesaggio, antinaturalistico, figurativo solo alla prima lettura. L’ansia di autenticità, tradotta in negativo nella impossibilità di uscire dall’universo mitologico, porta l’uomo alla disperazione più profonda nel momento in cui si fa lucida la sua coscienza. Ma, a questo livello, non c’è più differenza tra Erode, che sa di non poter volere altro che uno specchio per guardarsi («Non bisogna guardare nelle persone o nelle cose, bisogna guardare solo negli specchi»); che conosce il potere opprimente della storia e del mito («Non gli permetto di resuscitare i morti: sarebbe terribile se i morti rivivessero»; «non bisogna cercare simboli dappertutto: la vita sarebbe impossibile»); e il profeta, che trae le sue invettive da ragioni a lui esterne e che parla un linguaggio a lui incomprensibile (la battuta: «Avanti popolo, a riscuotere», detta da una figura di contadino-bracciante-calciatore della nazionale, è la frase politicamente più micidiale di tutto il cinema italiano, perché sono le parole di uno schiavo che non sa di essere schiavo, ma anzi è stato convinto di essere un rivoluzionario e per questo è disposto a prendersi tanti schiaffi, anche se non sa perché glieli danno, con tanto fervore). Non c’è differenza, nella misura in cui ogni parola ci impegna, nell’implacabile meccanismo della «verità»; nel momento che ci sentiamo signori di noi stessi, stiamo mettendo sul tavolo la nostra vita, il senso stesso della nostra esistenza («I re non devono mai dare la loro parola»). E mentre gli altri (tutti) fanno a gara per tradire i «santi» corrotti e corruttibili che vivono dentro di loro («Uno di voi mi tradirà… Io! Io! Io!») – Cristo tenta invano di crocefiggersi con le proprie mani – , Erode paga il prezzo salatissimo della sua vanità; egli ha osato chiedere un gesto, sperare in uno scatto della fantasia, puntare tutto su un attimo di ebbrezza, ma i veli di Salomè nascondono il nulla (cfr. la figura evanescente di Donyale Luna) e chiedono il massimo prezzo: la testa del profeta. Salomè è la vanificazione dell’uomo come rapporto, come relazione storica; di una storia che non è altro che mito: una serie di frasi fatte che non spiegano niente. Il film termina con Salomè che scortica vivo Erode sotto il sole. Poi lo schermo bianco.
Franco Pecori I veli di Salomè, Filmcritica, n. 231, gennaio-febbraio 1973
1 Gennaio 1973