Fuocoammare
Fuocoammare
Regia Gianfranco Rosi, 2016
Fotografia Gianfranco Rosi, Aldo Chessari
Attori Samuele Pucillo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Pietro Bartolo, Giuseppe Fragapane, Mario Signorello, Francesco Paterna, Francesco Mannino, Maria Costa.
Premi European Film Academy, Miglior Documentario [10 dicembre 2016]
Laddove i fatti richiedono poesia, Gianfranco Rosi (Leone d’Oro 2013 con Sacro GRA) li documenta con la macchina da presa. Documenta i fatti o dimostra che i fatti sono poetici? Per il cinema, ma per tutto il campo espressivo, il problema è di fondo, diciamo radicale. E ogni volta si rischia di ricominciare da capo, ricordando come basti piazzare la cinepresa in un punto anziché in un altro per produrre senso diverso e come, anche prima, il senso non stia nelle cose, negli oggetti, se questi non siano ancora oggettuali, intenzionati dalla mente umana. Da cui, il documentario cinematografico non è che un genere, similmente al western o al thriller ha la sua storia e la sua evoluzione sul filo dell’ambiguità estetica. L’assenza di “recitazione” non è sufficiente garanzia di “obbiettività”, i criteri di scelta dei materiali profilmici compongono già, al proprio livello, il disegno poetico. L’etichetta “tratto da una storia vera”, incollata a molti film di finzione, non assicura sulla coerenza interna del linguaggio, indispensabile per un giudizio di valore sul prodotto. Il tema di Fuocoammare è la drammatica situazione dell’isola di Lampedusa, in relazione al soccorso dei migranti. Il passaggio dalle immagini di repertorio dei telegiornali a quelle del film evidenzia l’innesto di momenti di vita “normale” dei lampedusani. In particolare, seguiamo il bambino Samuele mentre impara a guardarsi intorno e a fare esperienza, in casa con lo zio e la nonna e fuori, a fabbricarsi la fionda e a “farsi lo stomaco” per andare in mare. A contrasto, le situazioni angosciose dei salvataggi e delle prime cure alle genti che arrivano con la morte negli occhi e in particolare la testimonianza del medico, impegnato in un lavoro massacrante ed eroico. Quasi volendo evitare il “racconto”, Rosi usa una sintassi paratattica, lasciando che la metafora complessiva si “autogeneri” per una sorta di autonomia espressiva delle cose. Come dire: certe volte basta esservi. Ma fa capolino Malick, il mare invece dell’albero.
Franco Pecori
18 Febbraio 2016