Argo
Argo
Ben Affleck, 2012
Fotografia Rodrigo Prieto
Ben Affleck, Bryan Cranston, Alan Arkin, John Goodman, Victor Garber, Tate Donovan, Clea DuVall, Scoot McNairy, Rory Cochrane, Christopher Denham, Kerry Bishé, Kyle Chandler, Chris Messina, Zeljko Ivanek, Titus Welliver, Keith Szarabajka, Bob Gunton, Richard Kind, Richard Dillane, Omid Abtahi, Page Leong, Sheila Vand, Karina Logue.
Oscar 2013, Film.
Con quell’aria di boy scout un po’ cresciutello, Ben Affleck è al suo terzo film da regista (Gone Baby Gone 2007, The Town 2010) e sembra voler continuare in progressione l’importanza dell’impegno, nei temi e nei ruoli da protagonista (Nel lavoro di esordio si limitava alla regia e l’obbiettivo era puntato sul fratello Casey). L’America, si sa, è un paese difficile, i “cattivi” non mancano: se cerchi il thriller “vero”, lo trovi, magari passando un momento per il poliziesco. Se non avete visto i primi due film, con questo Argo sentirete ancor di più l’impatto con il carico di responsabilità che il regista s’è preso nell’affidare alla propria maschera di ragazzo per bene il ruolo di agente Cia specializzato nell’infiltrazione in contesti ostili, allo scopo di liberare ostaggi americani. Qui deve rassicurare le persone da salvare circa le proprie qualità professionali, dato l’alto rischio della missione, la quale non sembrerebbe alla portata del tipo. Ma Ben rassicura: «Lo faccio di lavoro, tiro fuori la gente. E non ho mai lasciato nessuno per strada». Certo è che, nel caso in questione, l’incarico che si prende il suo personaggio, Tony Mendez, è pesante un bel po’, tanto che lo sceneggiatore Chris Terrio sente di doverlo almeno alleggerire con la battuta di spirito, messa in bocca all’ambasciatore canadese a Teheran, alla prima occasione in cui i due si incontrano: «Mi aspettavo un G-Man come tipo». Idem da parte nostra, ma è forse perché anche noi, come l’ambasciatore, siamo stati superficiali e ci siamo meritati la risposta di Tony: «Lei si confonde con l’Fbi, signore». Nella residenza diplomatica si sono rintanati sei cittadini americani, sfuggiti (è storia) all’assalto dell’ambasciata Usa da parte dei militanti di Komeini, verificatosi nella capitale iraniana in subbuglio, il 4 novembre 1979. Abbiamo visto nella prima parte del film la protesta aggressiva dei rivoluzionari per chiedere al governo americano l’estradizione di Mohammad Reza Pahlavi, lo scià rifugiatosi negli Usa e appoggiato da Washington. La Cia, di fronte al problema di salvare i diplomatici in pericolo, accetta l’idea, avuta dall’agente Mendez mentre parlava al telefono col figliolo (“pausa di riflessione” con la moglie e piccolo affidato alla madre), appassionato di film di fantascienza. A questo punto scopriamo nel “dimesso” (così appare) agente segreto l’intuizione creativa davvero geniale. Fantascienza e cinema si sposano facilmente, perché non utilizzare il potere di Hollywood, l’attrazione irresistibile della fabbrica dei sogni come trucco per imbambolare i komeinisti? “Cattivi” nel perseguitare gli americani, gli implacabili difensori armati della rivoluzione si dimostrerebbero facilmente ammiratori del cinema popolare, abboccando alla finzione di una “troupe” in visita nella città per trovare le location di un film da fare. Di fantascienza appunto e di fattura grossolana. Incredibile ma vero (cfr. il libro del vero Tony Mendez, da cui il film). Mendez/Affleck indossa i panni del produttore e, con l’aiuto di un produttore e di uno scenografo (Alan Arkin e John Goodman) che a Hollywood si “divertono” a montare l’inganno, fanno credere che i sei americani nascosti a casa dell’ambasciatore del Canada siano i componenti della troupe cinematografica. Si pubblica un servizio sui giornali, si scrive una sceneggiatura con tanto di storyboard, si fabbricano passaporti falsi e il gioco è fatto. Gli ultimi venti minuti del film sono dedicati a seguire il tentativo di fuga dei sei ostaggi, guidati dall’agente “custode”. Riusciranno a prendere l’aereo di linea che li porterà in Svizzera? La suspense, per la verità alquanto scontata e piatta nell’esecuzione delle sequenze in parallelo che ovviamente non stiamo qui a dettagliare, conclude degnamente un film il cui merito maggiore è di essere piuttosto rilassante, rispetto a un argomento di per sé ansiogeno (la mente corre in avanti di una ventina di anni, fino alle Torri Gemelle). Sarà la faccia di Affleck o la stessa idea, non priva di umorismo, del cavallo di troia hollywoodiano, ma non siamo mai stati in vera apprensione per la sorte del gruppo dei diplomatici né tantomeno del protagonista.
Franco Pecori
8 Novembre 2012