Amabili resti
The Lovely Bones
Peter Jackson, 2009
Fotografia Andrew Lesnie
Mark Wahlberg, Rachel Weisz, Susan Sarandon, Stanley Tucci, Saoirse Ronan, Michael Imperioli, Jake Abel, Amanda Michalka, Thomas McCarthy, Reece Ritchie, Nikki SooHoo, Rose McIver, Anna George.
Una gran voglia (o bisogno?) di Paradiso. E insieme una spiccata resistenza a morire. Susie/Ronan (Espiazione), occhi azzurri e profilo delicato, racconta con voce fuori campo la terribile avventura che le capitò a soli 14 anni, in un campo di mais, due passi da casa, a Norristown, in Pennsylvania. Era un freddo pomeriggio del dicembre 1973, come risulta dal romanzo di Alice Sebold. La ragazzina tornava dalla scuola, felice per l’appuntamento che Ray (Ritchie), il “moro” di cui era teneramente innamorata, le aveva appena chiesto. Invece, un uomo dall’aspetto non tanto rassicurante, vicino di casa e con la faccia di Stanley Tucci (Era mio padre, Il diavolo veste Prada), tale e quale, la convinse ad infilarsi in una buca, una specie di rifugio per i giochi dei bambini, da lui stesso costruito con maniacale attenzione ai dettagli. La sera, i genitori e il fratellino attesero invano il ritorno di Susie. In sé, un normale fattaccio. Ma il racconto, cioè il punto di vista da cui Jackson (Il Signore degli anelli, King Kong) lo vede e lo raffigura, al di là del tratto letterario che già ne faceva un progetto di “sopravvivenza” spirituale un po’ alla moda, trasforma l’orribile destino di Susie in un consapevole – per quanto fantastico – stralcio di vita parallela, consono ai tempi, alle istanze del vivere “altro”, dimostrate dal pubblico giovane e testimoniate recentemente dal successo, per dirne una, di film che hanno per protagonisti vampiri ragazzi, lontanissimi per immaginazione dal Nosferatu e dal Dracula. Il regista neozelandese trasferisce la sospensione dal piano meccanico della narrazione alla sua stessa sostanza, sicché è la condizione di Susie a farsi spettacolo. E lo spettacolo, se da una parte attenua e mistifica il senso di inquietudine esistenziale, dall’altra esalta il potere accattivante dell’invenzione, dell’esistenza momentaneamente ambigua della protagonista narrante. «Sono – dice Susie – in un luogo di mezzo, nell’azzurro orizzonte tra cielo e terra». È il medesimo spazio sospeso che un bambino – per esempio il piccolo fratello della ragazzina – può disegnare con le matite colorate, è lo spiraglio di luce che traccia i colori della beata speranza nella prospettiva di un risarcimento dalle forme “indescrivibili”. Qui è la speciale sfida di Jackson, il quale con l’aiuto della fotografia di Andrew Lesnie e della musica di Brian Eno, sfuma i connotati di cose e persone fino a bloccare la vicenda nel limbo irrisolutivo di un dolce rinvio. Anche quando il racconto sembra giungere ai momenti salienti di un thriller hitchcockiano, l’aspetto inquietante della vicenda scende comunque in secondo piano rispetto alla tensione immateriale di cui Susie resta il veicolo primario. Sicché la ragazzina ci può descrivere in tutta leggerezza gli affanni dei genitori, che dal dolore per la perdita della loro figlia entrano nell’incubo dell’impossibilità a risolverne il mistero; e la provocatoria presenza in famiglia della nonna Lynn (Sarandon), i cui eccessi alcolici funzionano da curioso paradosso della rassegnazione. Quel che conta, in sostanza, è lo sguardo di Susie, la sua attesa partecipata che la vita laggiù abbia il miglior esito. Solo allora la ragazzina potrà/dovrà morire davvero. Il Paradiso, così vicino, può attendere.
Franco Pecori
12 Febbraio 2010