Tristana
Tristana
Regia Luis Buñuel, 1970
Sceneggiatura Julio Alejandro, Luis Buñuel
Fotografia José F. Aguayo
Attori Catherine Deneuve, Fernando Rey, Franco Nero, Lola Gaos, Antonio Casas, Jesus Fernandez, Vecente Soler, José Calvo, Fernando Cebrian, Candido Losada, Mary Paz Pondal, Juan José Menéndez, Lorenzo Rodríguez, Vicente Roca, Pilar Vela, Ximénez Carillo, Rosa Gorostagui (Rosa Luisa Goróstegui), Joaquín Pamplona, Antonio Cintado, Adriano Domínguez, José María Caffarel, Antonio Ferrandis, José Riesgo.
Tristana ha in sé la forza di vivere e di dimostrare con la propria esistenza non la validità o meno di un discorso lineare, ma la complessità e l’ambiguità vitale di una situazione personale/storica. La situazione “reale” non ha niente di naturalistico, l’azione non è mai pura azione, il materiale plastico non è casuale, tutto risponde a un’interna esigenza di interpretazione, a una tensione verso un livello più alto della cronaca, nel senso che il personaggio, figlio della storia, reca comunque in sé una forza “individuale” e misteriosa; e prova questa sua forza, la sperimenta proprio nei momenti cruciali dell’azione, interviene in essa per correggere con una propria scelta la direzione appunto della storia. Senonché, tali interventi non “risolvono” la situazione, ma ne evidenziano la complessità fino a rendere difficile una lettura lineare del messaggio. La personalità di Tristana si rivela attraverso tutta una serie di complicazioni esistenziali, le quali, se ci forniscono una sempre maggiore informazione nei dati obiettivi, lasciano tuttavia un altrettanto crescente margine di incognita alla definizione delle motivazioni del comportamento. Messi l’uno di fronte all’altro, i personaggi di Tristana e di Don Lope non sono una contrapposizione schematica di caratteri, ma l’espressione dialettica di un mondo che vive con le sue compresenze e implicazioni. La figura di Don Lope viene idealmente, e non solo idealmente, prima di quella di Tristana. È la base, il presupposto culturale che giustifica tutta la storia. Don Lope è una tipica figura di anarchico-qualunquista, parolaio della libertà e conservatore dei propri privilegi, primi fra tutti quelli della carne. Conduce un’esistenza da ipocrita, avvinto ai riti di un mondo condannato per sempre e vittima egli stesso della propria ipocrisia. Mentre l’onore si confonde con la violenza, l’egoismo col paternalismo, la nobiltà con la vigliaccheria, il ragionamento con il sofisma, i suoi discorsi sulla libertà dal lavoro e dal denaro assumono intonazioni più false quando dal contesto delle vanità si riconducono alla ben triste sostanza dei suoi “affetti”: «I limiti della tua libertà – dice Don Lope a Tristana, sua pupilla e forzata amante – li devi stabilire tu stessa, salvando il mio decoro e l’affetto che nutro per te». Quel “decoro” e quell’ “affetto” sono le colonne cadenti di un tempio ormai sconsacrato. Dice il campanaro a Tristana: «Una volta la gente sapeva le cose solo dal suono delle campane». Sul campanile, l’enorme batocco diviene, nella fantasia della giovane frustrata, la testa di Don Lope. Egli l’ha educata all’amore libero quando nulla ella sapeva degli uomini e ha poi represso la sua vitalità appoggiandosi alla sana tradizione della donna onesta che “tutto l’anno in casa resta”. Ormai vecchio e rassegnato alla decadenza, finisce i suoi giorni ricevendo in casa preti scrocconi, degno uditorio del suo insanabile opportunismo: «Dopotutto, signori, la vita non è così nera come credono molti: sta nevicando forte, però qui c’è un calduccio, per fortuna». Questo vecchio morirà rantolando da solo nel suo letto, tradito dalla fredda vendetta di Tristana, la quale, ormai moralmente e fisicamente distrutta, chiude il cerchio della triste esistenza – rapida catena di flashbak. Il rapporto col patrigno ha falsato all’origine il suo approccio col mondo dei sentimenti costruendole una base di dubbi, di incertezze, frustrazioni e isterismi e costringendola in un violento condizionamento, imprigionata in una rete di rinunce e reazioni da cui non sarà capace di uscire. La fuga col giovane pittore segna il limite di un incontro nato già col segno negativo. Basta che Tristana venga colpita nella sua vitalità (fisica) perché le sue forze morali cedano definitivamente a quella specie di misteriosa attrazione verso il male originario che è la tomba nella quale è stata condannata a vivere. Da questo punto di vista, ancor più poetiche risultano certe connotazioni rapide ma costanti lungo l’arco del film sul tema del contrasto tra il naturale, quasi gioioso slancio alla libertà, alla scelta, alla rivolta – le passeggiate di Tristana, quel suo osservare le cose come per imparare a leggere il mondo – e l’opprimente chiusura di una società che considera l’ordine come l’unico metro per misurare la civiltà – l’episodio del ladruncolo, lo scontro dei giovani con le guardie, l’uccisione del cane rabbioso. Il discorso di Buñuel non è comunque moralistico. Se i suoi sono personaggi “morali”, questo è il segno di un campo di ricerca e non di un’intenzione discriminatoria. Don Lope e Tristana portano in sé il peso di un mondo che li ha prodotti e non si salvano perché non hanno la forza per salvarsi; ma conservano una loro umanità, non chiedono condanne o assoluzioni. È un discorso aperto ad altri discorsi, è un realismo di cui si ha bisogno. [“L’opera appare, in complesso, di incerta sostanza, e qua e là viziata da concessioni commerciali.” – Segnalazioni cinematografiche, vol. 62, 1970]
Franco Pecori, Le colonne del tempio sconsacrato, Filmcritica 210, ottobre 1970
1 Ottobre 1970