Carnage
Carnage
Roman Polanski, 2011
Fotografia Pawel Edelman
Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly.
Venezia 2011, concorso.
Non sarà Murnau, ma certo la dignità estetica di questa versione della pièce God of Carnage (Lay Waste To England For Me, 2006) di Yasmina Reza (qui cosceneggiatrice insieme al regista) è almeno paragonabile sul versante del metodo: un Kammerspiel cinematografico non rigido, che lascia anzi spiragli espressionisti all’evolversi della situazione “chiusa”. Due, infatti, le deroghe alla location cameristica, una all’inizio e l’altra alla fine del film. La prima possiamo rivelarla, la seconda dà un senso sarcastico al racconto, essenziale a una lettura ulteriore. Notiamo l’uso del campo lunghissimo che può far pensare a Wiene o anche a Lang, e soprattutto manteniamo impressa nella memoria l’inquadratura di quel parco di Brooklyn dove i bambini giocano “non osservati”. Giocano e litigano, tanto da farsi male. Uno di loro, vediamo da lontano, picchia un altro del gruppo con una specie di bastone, forse una canna di bambu. La cinepresa non si avvicina, due alberi in primo piano fanno da quinta, la luce del sole inonda lo sfondo. E si passa all’interno, nella casa dei genitori del bambino che ha avuto la peggio, labbra gonfie, incisivi rotti. Penelope (Foster) e Michael (Reilly) accolgono in salotto Nancy (Winslet) e Alan (Waltz). L’intento è di chiarire civilmente l’accaduto. I dialoghi, battute di convenienza che man mano si sfilacciano e si ramificano sia in senso orizzontale sia in profondità, hanno il pregio di non restare sulla carta, s’incarnano invece nei volti e nei corpi dei bravissimi attori, un quartetto perfetto che ci trascina all’interno di una carneficina indesiderabile eppure inevitabile, quasi un destino perverso ci invade e ci coinvolge facendoci uguali ai protagonisti, seguiamo il loro disfacimento, la loro decomposizione: da gente borghese e “per bene” a maligni individui di una società malridotta anche nei suoi aspetti apparentemente positivi. Polanski, maestro della repulsione e dell’odio, interprete “straniero” delle discese moderne agli inferi, è capace anche di divertirci, specie nei momenti di maggiore tensione e di verità esagerata, esibiti dai quattro personaggi ciascuno a suo modo, con la propria storia, con i propri incurabili tic. Torna infine la visione del parco e i bambini giocano ancora, ma con qualche differenza. Un interno/esterno magistrale, da capogiro e da brivido se lo sguardo andasse appena al di là.
Franco Pecori
16 Settembre 2011