Interruption
Interruption
Regia Yorgos Zois, 2015
Sceneggiatura Yorgos Zois, Vassilios Kyriakopoulos
Fotografia Yannis Kanakis
Attori Alexandros Vardaxoglou, Sofia Kokkali, Pavlos Iordanopoulos, Hristos Karteris, Romanna Lobats, Angeliki Margeti, Natassa Brouzioti, Aineias Tsamatis, Constantinos Voudouris, Maria Kallimani, Areti Seidaridou, Spyros Sidiras, Christos Sougaris, Alexandros Sotiriou, Elena Topalidou, Maria Filini, Vasilis Andreou, Daphne Patakia, Alexia Kaltsiki, Effi Rabsilber, Christos Stergioglou, Labros Filippou, Nicos Flessas.
L’interruzione raccomanda la continuità. Il Mito è la continuità, chi pensa di poter fare a meno della continuità è destinato a una brutta fine. Ai tempi del liceo circolava così: Eschilo, ché qui si Sofocle, ma sarò attento alle scale, ché sono Euripide. Scherzando scherzando, i classici li abbiamo dimenticati e con loro la Storia. Mentre di giorno in giorno constatiamo che la scuola sta diventando diseducativa (un po’ come si dice del carcere), arriva dalla Grecia un film provocatorio. Con linguaggio postmoderno, Interruption (quarto titolo di Yorgos Zois) ci propone, ancor più che una rilettura dell’Orestea (Agamennone, Le Coefore, Le Eumenidi), una visione strutturalmente sincronica dello spirito di Eschilo, autore tragico dell’antica Grecia (525-456 a.C.). Passato in concorso nella sezione Orizzonti della Mostra veneziana del 2015, Interruption esce ora in poche sale, principalmente a Roma, e resta in attesa di una distribuzione più ampia, che vada oltre la benemerita memoria del Filmstudio anni ’70 (viene da domandarsi cosa succederebbe a proiettare Interruption nelle scuole). Il film propone il tema non nuovo dell’interconnessione tra realtà e arte, nella costitutiva esistenzialità del linguaggio. Si parla di una certa immedesimazione del fruitore nella “realtà” dell’opera. Il problema è quanto e come tale “realtà” sia e/o possa essere reale. Lo stabilirà di volta in volta la semiosi, imprescindibile stato della comunicazione. Ciò che può accadere a teatro, tra scena e platea, non è molto diverso, in fondo, da ciò che ci accade quotidianamente nel nostro “teatro” quotidiano: vita e sua “rappresentazione”. Tutto qui, se non vi sembra poco. All’inizio il film ci ricorda la traccia schematica dell’opera di Eschilo. Agamennone, capo degli Achei nella guerra di Troia, torna a casa e viene ucciso dalla moglie Clitennestra. Il figlio Oreste, per vendetta, uccide la madre e suscita l’ira delle Erinni (sentimenti/corpi di vendetta femminile nell’ambito famigliare). Il giudizio popolare, dopo il momento della catàrsi (purificazione, espiazione), assolverà il matricida. La cinepresa registra una rappresentazione nella rappresentazione, giacché, mentre in un teatro di Atene si recita una versione ultramoderna (cioè spinta verso il simbolico) di Eschilo, lo spettacolo viene interrotto da un gruppo di “intrusi” armati (può venire in mente l’episodio del 2002 a Mosca, quando i ceceni presero in ostaggio gli spettatori). Un loro “speaker” (Alexandros Vardaxoglou) invita il pubblico a partecipare, a salire sul palco ed entrare in scena. Da quel momento i ruoli si confondo, cresce l’imbarazzo, ma si sviluppa anche un gioco dei ruoli sempre più coinvolgente. Verità/finzione. Platea e scena si confondono, ed emerge la questione della responsabilità nella scelta dei personaggi, fino ad arrivare alla domanda: cosa farei oggi io nei panni di Oreste, o in quelli degli altri protagonisti, compresi gli “spettatori”? E insieme, in quale modo le antiche figure messe in scena da Eschilo possono assumere ruoli moderni, arrivando fino a noi? Il Mito regge al trascorrere della Storia? Regge per la sua essenza, che è storica appunto. C’è qualcuno che ha voglia di gridare “Non c’è bisogno di nessuno”? Sarà come annunciare il proprio suicidio. Come dire che la “compagnia” del Telegiornale non basta se non vi sia catàrsi a salvare le nostre colpe. Merito della regìa, un organico equilibrio tra forma e sostanza. L’esibizione del procedimento (si scorge a un certo punto l’interno di una regia video che controlla la ripresa) è esplicitamente contenuta nei limiti di un’espressività non-aggressiva. Spazio alla ragione della lettura. In questo senso, l’epilogo del film assume purtroppo il valore di una riduzione moralistica, ridondante rispetto alla proposta di recupero della lezione classica. Si esce dal teatro e ci si trova in una sala da ballo dove alcune coppie, tristi e composte, muovono passi di danza comandate al microfono dal medesimo speaker, o capo del coro, che avevamo visto condurre la sperimentale Orestea. Non si aggiunge nulla ma si degrada al qualunque la provocazione.
Franco Pecori
24 Aprile 2018