Ballare per un sogno
Make It Happen
Darren Grant, 2008
Fotografia David Claessen
Mary Elizabeth Winstead, Tessa Thompson, Riley Smith, Julissa Bermudez, Ashley Roberts, John Reardon, Karen Leblanc.
Operetta morale? Non esageriamo. La morale c’è, ma non ha grandi ambizioni. Ciò non toglie che un giovane di provincia, anche italiana, possa ritrovarsi nella lezioncina buonista che viene da un piccolo centro dell’Indiana, Usa. È questione di proporzioni. Certo il prestigio della Scuola di Musica e Danza di Chicago è unico, eppure la passione, quando c’è, si sente anche in Italia. Può accadere. Comunque in qualche modo lo spettatore dovrà cercare di non sentirsi troppo estraneo al film dove Lauryn (Winstead), ragazza di provincia, affronta l’avventura nella metropoli per concretizzare il sogno di diventare ballerina. Combattuta tra la sua passione, che per anni ha coltivato esercitandosi in proprio, e il dovere morale di non abbandonare il fratello Joel (Reardon) nella conduzione dell’officina ereditata dal padre, Lauryn trova la forza di partire per un’audizione a Chicago, spinta anche dal ricordo della madre, morta giovane, che l’aveva iniziata alla danza. L’audizione va male, Lauryn deve arrangiarsi, trova lavoro in un cabaret di genere burlesque (aggiornato all’oggi), il Club Ruby, e impara che l’hip-hop e tutto il “moderno” può servire a migliorare la fiducia nel proprio corpo. Arriva il successo, con l’aiuto morale delle amiche del club e del deejay Russ (Smith), che le fa la corte e del quale s’innamora. Così la ragazza si fa coraggio e decide di tentare una nuova audizione. Ma dovrà prima dare prova a Joel della propria fedeltà alla famiglia. Finirà bene, ovvio, soprattutto per la buona disposizione d’animo della ragazza. Evviva. Volendo si potrebbe fare anche un discorso serio, impiantato su una struttura del tipo “scelta/selezione”, ma ne vale la pena? Il quasi zero in imprevedibilità e quindi in informazione suggerisce cautela. Altra possibilità sarebbe il tema dell’universalità della musica (e della danza), senonché la somiglianza delle ricorrenti scene di tipo “frequentativo” le rende quasi indistinguibili l’una dall’altra e non è precisamente questo l’ “universale” di cui si dovrebbe parlare. Al dunque, resta la simpatia dei protagonisti. Brava in particolare la Winstead (Bobby, The Ring 2, Die Hard – Vivere o morire). La musica ha il merito di non essere inutilmente aggressiva, la regìa non si stacca dallo stile “video”, di cui è pratico l’americano Grant, premiato autore di Video Music.
Franco Pecori
3 Aprile 2009