Una sconfinata giovinezza
Una sconfinata giovinezza
Pupi Avati, 2010
Fotografia Pasquale Rachini
Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri, Serena Grandi, Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Manuela Morabito, Eraca Blanc, Osvaldo Ruggieri, Voncenzo Crocitti, Bian Fenzi, Marcello Caroli, Riccardo Lucchese, Lucia Gruppioni.
La memoria e la responsabilità. Se narrare non attingendo alla memoria è sostanzialmente impossibile, per Avati la memoria è una necessità estetica, almeno da Gita scolastica in poi. Con l’andare degli anni l’immaginario del regista è andato maturandosi in una sorta di riflessione morale, non solo interna ai propri “ricordi” ma relazionata alla cultura di un uomo che ha vissuto con animo vigile una lunga storia d’artista. Nel cinema soprattutto, ma non da cinefilo. Ora il “ripasso” del proprio film, divenuto via via più esplicito, si spinge drammaticamente fino al rischio della cancellazione, affrontando in apparenza il racconto di una malattia e, più in profondità, inscenando la metafora estrema della perdita del linguaggio, laddove al cervello viene meno la vitalità delle cellule e svanisce l’abilità delle connotazioni e se ne va la coscienza di sé. L’Alzheimer colpisce Lino (un Bentivoglio molto misurato e credibile), giornalista sportivo e marito di Francesca, docente universitaria e affettuosa compagna (brava Neri, nel rendere la sofferenza contenuta della donna che sceglie di non abbandonare a se stesso l’uomo che ama); progressivo si fa il cammino a ritroso nella mente del protagonista mentre più indistinto diviene il presente. Sfuggono i riferimenti attuali, emergono flash dall’infanzia (notevole la scelta di Brian Fenzi per la parte di Lino bambino). I giochi, il sesso nascosto, le tenerezze, le malinconie, le relazioni famigliari nel mondo nostalgico dell’Appennino bolognese, di case di campagna, di lutti e di feste, di affetti perduti e da ritrovare. Man mano, il sentimento complessivo acquista importanza assoluta e, a sua volta, cancella il racconto. Non a caso il film mostra qualche debolezza nei momenti più tecnicamente narraviti e percorre invece la strada del cinema di poesia quando la cinepresa entra in un contatto “ravvicinato” con lo spirito della ripresa. È una specie di paradosso della memoria, per cui lo sguardo dell’Avati autore viene proiettato in una dimensione più larga, fino a dover assumere la responsabilità della denuncia di un pericolo immanente, proprio del momento storico che stiamo vivendo. Attenti alla cancellazione. Il discorso vale anche per la parte letteraria del film, dalla valenza culturale non indifferente. La voce narrante fuori campo di Francesca articola un andamento sintattico che per la compostezza del tono e per l’inusitata discrezione dei riferimenti sa quasi di provocazione.
Franco Pecori
8 Ottobre 2010