Il profeta
Un prophète
Jacques Audiard, 2009
Fotografia Stéphane Fontaine
Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi, Jean-Philippe Ricci, Gilles Cohen, Antoine Basler, Leïla Bekhti, Pierre Leccia, Foued Nassah, Jean-Emmanuel Pagni, Frédéric Graziani, Slimane Dazi.
César 2010: Film, regia e altri sette premi.
Un’analogia tematica piuttosto vaga, suggerita dalla citazione finale della musica di Kurt Weill, non colma la distanza tra Audiard e Brecht. Il destino di Malik El Djebene, il “profeta” interpretato dal bravo Tahar Rahim, somiglia sì a quello di Mackie Messer, ma il finale del film conserva un’ambiguità di prospettiva che nell’Opera da tre soldi era invece chiarita dallo straniamento strutturale nonché dall’ironico intervento della regina che salva il condannato e lo fa baronetto. Il giovane di origini arabe Malik, analfabeta e spaesato, si ritrova in carcere per una reazione verso un poliziotto. È presto evidente che la sua condanna a sei anni sarà ben poca cosa rispetto al cambio di vita che lo attende. Dovrà imparare come la detenzione risponda a regole implicite per nulla diverse e anche più dure di quelle che governano la “libertà” civile. Una squadra di carcerati còrsi obbedisce al boss Luciani (Arestrup, Tutti i battiti del mio cuore, Lo scafandro e la farfalla), il quale coltiva Malik fino a farne il suo favorito per i rapporti con l’esterno. Il ragazzo deve farsi assassino e, quando poi è fuori, approfitta dei permessi per far fruttare a proprio vantaggio i contatti malavitosi. Intelligente, impara a leggere e capisce che gli conviene lasciare Luciani per schierarsi con la banda degli arabi, ormai dominante dopo che la maggior parte dei còrsi hanno finito di scontare la pena. Audiard, realista sensibile (Regarde les hommes tomber, Un héros très discret, Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore), si dilunga con passione a seguire l’evoluzione del personaggio, si immedesima nel suo sofferto calvario fino a varcare la soglia narrativa. Diciamo si dilunga perché la componente stilistica finisce per andare oltre l’intenzionalità del senso e ci restituisce una vicenda partecipata ma senza sbocchi, nemmeno ambigui (dell’ambiguità estetica).
Franco Pecori
19 Marzo 2010