Funny games
Funny Games
Michael Haneke, 2007
Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Brady Corbet, Boyd Gaines, Siobhan Fallon, Robert Lupone, Devon Gearhart, Siobhan Fallon Hogan, Robert Lupone.
Una famigliola ricca sotto vetro, perfettamente conservata dopo la nascita artificiale del 1997, da Arancia meccanica. Anna (Watts), suo marito George (Roth) e il figlioletto Georgie (Gearhart) vanno in macchina trainando una barca verso la loro residenza estiva, sul lago. Ascoltano musica dai Cd, giocano a indovinare i brani, Tebaldi, Gigli… Non sanno quale altra musica li attende. Lo sanno gli spettatori che hanno visto Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971) e Funny Games del 1997, dello stesso Haneke. Il regista austriaco (Il tempo dei lupi, 2003, Niente da nascondere, 2005) ha pensato bene di fare una copia, non del film di Kubrick, di cui aveva già fatto una specie di remake, ma di quello stesso remake. Sbigottito dalla cattiveria dei due ragazzi “bianchi”, vestiti di bianco come due anime innocenti, che stanno torturando lui, la moglie e il figlio, George chiede “ingenuamente”, come fosse uno di noi, come uno spettatore qualsiasi: «Perché state facendo questo?» La risposta non è una risposta qualsiasi, è “filosofica”: «Perché no?» Da qui in poi ci si accorge che dall’inizio del film qualcosa non torna. Il comportamento dei due “visitatori” è giocato su una cifra di “normalità” esibita. Paul (Pitt) e Peter (Corbert), che sulle prime apparivano un po’ strani, si muovono come teleguidati, la loro “esecuzione” del gioco si fa sempre più scoperta, perde ogni traccia di mistero. L’orrore per il loro strano e cinico sadismo è affidato ad una suspense tecnica così trasparente da non poter determinare altro che variazioni, sulla prevedibilità della quali scommette Haneke per calcolare la nostra resistenza. Il nostro divertimento finisce del tutto quando, verso il culmine, Paul rinuncia a bloccare la bocca di Anna e spiega: «Ci si annoia se chi soffre è muto e noi vogliamo divertire il nostro pubblico». Parla in modo esplicito “a nome del regista”. Cade il segreto della messa in scena. Il discorsetto finale dei due sulla barca, su realtà e finzione, invece di dare corpo al tema (finiremo, o magari già siamo, tutti così, con un «Perché no» nel cervello?), rovina la “fabbrica del ghiaccio”, scioglie il film in un esercizio consolatorio: geometrie translucide, attacchi simmetrici, eleganze formali che invitano ad altri esercizi. Ma il gioco della perfezione quanto può durare? «Un po’ troppo stress in nome della buona educazione», direbbe l’elegante Paul. Il film è comunque un buon esempio di ottima recitazione e, sul versante teorico, un altrettando buon esempio dell’impossibilità di copiare. Non c’è remake che tenga: un secondo film è sempre un altro film. Lo dimostra il prosperare dei generi e dei sottogeneri. Pronti al successivo esercizio?
Franco Pecori
11 Luglio 2008