Lezioni d’amore
Elegy
Isabel Coixet, 2008
Fotografia Jean-Claude Larrieu
Penélope Cruz, Ben Kingsley, Dennis Hopper, Patricia Clarkson, Peter Sarsgaard, Deborah Harry, Chelah Horsdal, Sonja Bennett, Shaker Palaja.
Il professor David Kepesh (Kingsley) tiene all’università lezioni affascinanti, parla di letteratura, di arte, si muove con disinvoltura tra Roland Barthes e Philip Roth. È nell’età matura e non smette di essere lascivo. Con un cinismo di comodo, supportato dai colloqui amicali con l’ amico poeta George O’Hearn (Hopper) vincitore del Pulitzer, fa collezione di donne. Ha lasciato la moglie con “sincerità”, abbandonandola con un figlio che ora non lo vede, quando lo vede, di buon occhio; ha conservato per anni l’agenda erotica aperta per gli appuntamenti più o meno fissi con Carolyn (Clarkson), matura anche lei ormai, con la quale è andato svolgendo il tema del più franco e consapevole interesse sessuale. Tra una discussione e l’altra, a tavolino con George o in televisione, su argomenti come la nascita dell’edonismo americano, quasi senza accorgersene, David incappa nella studentessa Consuela (Cruz). La becca in pieno master e la porta a letto. Si va avanti così per un bel pezzo, aspettando invano che il segno erotico divenga più nitido. I due sembrano frenati da una sorta di confusa perplessità. Tanto frenati che perfino la bravura dei protagonisti rischia di venir soffocata dal continuo “Stop and Go” delle sequenze erotiche, addolcite e tagliate dalla teoria delle ellissi che denunciano la propria natura spiccatamente letteraria. L’amore spregiudicato si ferma sulla soglia dell’elegia, invaso man mano dalla malinconia che diviene anche tristezza e poi dramma quando la ragazza scopre di avere un cancro proprio nel seno. Dovrà farsi operare. Per un’istanza di eternità mielata, Consuela chiede a David di fotografarla – lui ha in casa una “camera oscura” – prima che la bellezza venga recisa. Se il film finisse qui, magari sarebbe un po’ corto ma eviterebbe di spiattellare i risvolti “amari” di un rapporto non tanto “im-possibile” quanto piuttosto bugiardo, di un amore inconfessato e alla fine irrecuperabile, che non trova più, come nella prima parte, neanche l’appoggio letterario della narrazione fuori campo. Quando David sarà un “uomo finito”, il lavoro della Coixet si sarà fatto inutile da un bel pezzo, il romanzo breve di Roth, L’animale morente, da cui il film ha preso l’avvio, avrà lasciato sola la regista spagnola, sul set vuoto di poesia, bloccato nel fiacco tentativo di una tessitura metaforica che, passando per la Berlinale 2008, non ha trovato la strada di casa. Peccato, giacché in due precedenti prove (La mia vita senza di me e La vita segreta delle parole) Isabel Coixet aveva promesso ben altro seguito.
Franco Pecori
30 Aprile 2009