Sole alto
Zvizdan
Regia Dalibor Matanic, 2015
Sceneggiatura Dalibor Matania
Fotografia Marko Brdar
Attori Tihana Lazovic, Goran Markovic, Nives Ivankovic, Dado Cosic, Stipe Radoja, Trpimir Jurkic, Mira Banjac, Slavko Sobin, Lukrecija Tudor, Tara Rosandic, Ksenija Marinkovic.
Premi Cannes 2015, Un certain regard: Prix du Jury.
L’amore e tutti i sentimenti che riguardano la vita di ciascuno appartengono comunque alla storia dei singoli e delle società. Insomma alla storia. Sulla base di tale ovvietà universale, il croato Dalibor Matanic (Zagabria, 1975), alla sua ottava regia (i suoi film non hanno avuto finora distribuzione in Italia), segue le tracce di un’attrazione tra due giovani lungo il filo di tre decenni. Lo scenario materiale è circoscritto a due villaggi nei Balcani e animato in tre momenti temporali: si comincia nel 1991, seconda tappa nel 2001, terza il 2011. Non sarà l’arrivo perché il giro, s’intuisce, è ancora lungo. Giulietta e Romeo sono vivi, tra di noi, anche se Matanic non è Shakespeare. Dice l’autore: «Come regista, sono sempre stato attratto dall’onnipotente odio interetnico che percorre i Balcani e da ogni fronte di guerra generato dalla politica o dalla religione». Nei tre momenti, Tihana Lazovic è Ivan, Ante e Luka; Goran Markovic è Jelena, Natasa, Marija. Sono tre coppie che ne fanno una sola, un ragazzo croato e una ragazza serba, il senso è che se cambiano le persone l’amore resta contrastato dal medesimo odioso comportamento degli “altri”, di “loro”, di “quelli” che non vogliono, che si oppongono. E una vita normale sarà ancora un sogno non si sa per quanto ancora. I due attori sono bravi, entrano nelle tre storie diverse e uguali con appassionata maestria, spogliano di ogni possibile macchinosità il gioco delle variazioni/varianti e propongono un implicito ed efficacissimo coraggio per una necessità e un futuro: accettazione contro intolleranza attraverso il respiro pesante della storia. Sole alto, trasparenza e apertura non solo nel privato. Produttivamente, Croazia, Slovenia e Serbia collaborano per un film che sia «uno specchio per tutti noi». Quanto al cinema, più che i possibili richiami “documentari” o realistici all’attualità ancora drammatica, colpisce la sensualità sacrosanta che unisce il destino dei due protagonisti, vissuta e ripetuta nel tempo, proprio nel quadro di un incubo storico che aleggia sotterraneo, anche al di là dell’orizzonte del set, al di là e prima del razzismo, del neonazismo, dell’antagonismo religioso di cui ci accorgiamo mentre l’attrazione fatale attraversa i corpi. Per una fisicità ultrapoetica come questa si dovrà tornare indietro di molto (1952), a un autore scambiato troppo spesso per “spirituale”, il Bergman di Sommaren med Monika (Monica e il desiderio, uscito da noi nel 1961).
Franco Pecori
28 Aprile 2016