La complessità del senso
09 06 2023

Lezioni di storia

film_lezionidistoria.jpgGeschichtsunterricht
Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, 1972
Gottfried Bold, Johann Unterpertinger, Henri Ludwigg, Carl Vaillant, Benedikt Zulauf.

L’ultimo film di Straub/Huillet mette in gioco più direttamente la poetica brechtiana, se non altro perché il pre-testo è Die Geschäfte des Herrn Julius Caesar (Gli affari del signor Giulio Cesare), appunto di Brecht. Vale la pena di fermarsi a cogliere il senso di certe notazioni dello stesso Brecht a proposito del suo romanzo al tempo in cui stava lavorandovi (poi resterà un frammento di romanzo). Brecht svolge come al solito un intenso lavoro di ricerca per approfondire la coscienza di certi dati “reali” e arrivare al suo livello di realismo, a mostrare le cose «come realmente dovrebbero essere». La scelta della forma letteraria, il romanzo, assume un carattere polemico verso una certa teoria del realismo basata sull’analisi del romanzo borghese dell’Ottocento. «La mia attività, almeno a quel che credo, è molto più poliedrica di quanto non pensino i nostri teorici del realismo. Essi mi presentano in maniera assolutamente unilaterale. (:::) Per il lavoro interno a questo romanzo, Gli affari del signor Giulio Cesare, non riesco a ricavare da loro la benché minima indicazione (…)».

 

Non a caso le considerazioni di Lukács sul cinema sono, ancor oggi, centrate su un valore “atmosferico” della riproduzione fotografica del reale (Cfr. G. L., Estetica I, Torino, 1970, pp. 1258 e sgg.), per cui allo spettatore verrebbe una specie di attestato di autenticità del messaggio. Brecht si dichiara, polemicamente, un formalista: «Mentre sfoglio un mucchio di libroni di storia (sono redatti in quattro lingue, per non parlare delle traduzioni da due lingue antiche) e  cerco di andare a fondo delle circostanze di un dato avvenimento – e intanto sono pieno di scetticismo e per così dire non faccio che togliermi di continuo la sabbia dagli occhi -, nella parte posteriore della mia testa sorgono indistinte immagini di colori, impressioni di determinate stagioni, sento delle cadenze senza parole, vedo dei gesti senza significato, penso ad auspicabili raggruppamenti di figure prive di nome e così via. Le immagini sono molto indistinte, per nulla eccitanti, piuttosto superficiali, a quel che mi sembra. Ma esistono, il  formalista che è in me è al lavoro. Mentre vado lentamente scoprendo il significato delle corporazioni delle mutue mortuarie di Clodio e già mi invade una  certa gioia della scoperta, penso: se una buona volta si riuscisse a scrivere un capitolo lunghissimo, limpido, autunnale, cristallino, con una curva irregolare, una sorta di rossa linea ondulata che l’attraversasse tutto!». (Cfr. B. B., Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, 1973).

Brecht si schiera contro un certo tipo di riconoscibilità dell’immagine artistica, che postula una sorta di omogeneità della forma – a livello di contenuto – non necessariamente rispondente all’effettiva situazione produttiva dell’artista, ma solo rispondente all’espressione di una preferenza in direzione della norma. Ciò che a Brecht preme di salvare è la possibilità del discorso, proprio nel senso di un confronto dialettico, riscontrabile, esso sì, nella polarità degli elementi in gioco, interni al contesto o chiamati da questo a confermare il grado di apertura del confronto stesso. A tutto questo devono aver anche pensato Straub e Huillet quando hanno definito la struttura di Geschichtsunterricht (Lezioni di storia): non una “lezione”, ma un modo di riflettere sui rapporti tra chi indaga e la materia indagata, una riflessione sul modo di fare un film, di essere nella storia. Se per Brecht si trattava di togliersi «la sabbia dagli occhi», per Straub e Huillet il problema era di non restituire tali e quali (naturalisticamente) le argomentazioni brechtiane. Bisognava fare attenzione che i “personaggi” storici non venissero immediatamente investiti dal procedimento cinematografico, ma fossero come tenuti fuori, e acquistassero così una  consistenza, una rappresentatività contestabile. Al limite, risulterà legittimo ridurre (illegittimamente) Lezioni di storia a una mera dialettizzazione di una tesi ideologico-politica e, chiudendo per così dire gli occhi, assumere i significati del film solo attraverso le parole degli attori. L’operazione sembrerebbe suggerita, in termini strutturali, dal film stesso, quando al pieno delle lunghe inquadrature fisse, col dialogo del Banchiere e del Giovane, oppone il vuoto dei fotogrammi neri. Ma questo pieno-vuoto non è altro che il susseguirsi dei pezzi di pellicola giuntati per fare il film. Lo stacco assume un valore formale molto forte, ben oltre la scansione lineare dei blocchi narrativi. Lo stacco, in questo film, non è mai in funzione di un montaggio “narrativo”, né ha intenti universalistici, né attinge le sue ragioni da metaforizzazioni extrafilmiche; più che assumere valori sintetici, segna quella che Tynjanov (un latro formalista!) chiamerebbe la «successione differenziale» delle inquadrature, ponendo allo scoperto una materialità del cinema, che non esclude ma anzi sottende la dialettica del procedimento.

Lezioni di storia è così svuotato di ogni illusione di continuità e restituito allo spettatore in tutta la sua carica contestativa. Registrazione (in presa diretta) di una realtà “inverosimile” (il giovane a noi contemporaneo che, in automobile, va ad incontrare, nella Roma e in altri luoghi d’oggi, personaggi di tanti secoli fa: un banchiere, un contadino, un avvocato, uno scrittore, uomini anch’essi del nostro tempo ma vestiti di panni antichi…) e sua organizzazione dialettica (pieno-vuoto/fissa-stacco); documentario di una realtà autentica (tutto il materiale profilmico, che davanti alla macchina da presa non può non mostrare la sua piena attualità), realizzato con strumenti analiticamente esibiti per tali: il tempo dei “pieni” e dei “vuoti”, la lunghezza delle battute, i silenzi. E comunque, non un film sul cinema, bensì un laboratorio che usa il cinema. Il testo di Brecht è sempre in primo piano. Straub/Huillet lo rivelano nella sua autenticità utilizzandolo come polo della ricerca. In questo senso, possiamo parlare di uso specifico del cinema, poiché qui la parola acquista una correlatività, una apertura verso un “fuori”, che è precisamente il suo attestato di appartenenza a una sfera formale. E’ la “pienezza” del mezzo a legittimare la “lettura” e dunque a svincolarlo dalla pura e in-significante materialità. La pienezza del filmato risulta, non come in moltissimi casi di cinema pseudo-impegnato, da una sorta di compattezza del referente, misurata a volte sulla presenza stessa del personaggio – ché, anzi, ciò che risalta di più in Lezioni di storia è l’assenza del personaggio e il crudo affermarsi del lavoro delle persone davanti alla macchina da presa -, bensì dalla inequivocabile funzionalizzazione del procedimento. Ciò, ovviamente, non vuol dire univocità del significato. La produzione del senso coincide col flusso proiettivo del film proprio in quanto i fotogrammi, sfruttando al massimo una loro materiale capacità di registrazione (si pensi alla fissità dell’obbiettivo, al tipo di focale usato: non vengono mai oltrepassate le soglie del 9 e del 25; e alla presa diretta del suono), correlano questa loro disponibilità alla sua stessa negazione: la serie “vuota” del film. Esempio, l’inquadratura della terrazza della villa Aldobrandini a Frascati, con la voce del Banchiere fuori-campo. Qui il “pieno” del procedimento si identifica, in un certo senso, con il “vuoto” referenziale. Il fuori-campo, rispetto al contenuto, produce uno spazio d’intervento per lo spettatore, che è dilatato al massimo. L’immagine, tagliata trasversalmente da una fila di vasi fioriti, resiste per 1’20” al “bombardamento” semantico del testo brechtiano e, al tempo stesso, lo esalta nei suoi valori di contenuto: è una vera e propria denuncia contro tanti film che troppe volte negano allo spettatore il diritto all’interpretazione; e contro l’inadeguatezza anche di un cinema di intervento diretto. «I nostri appaltatori doganali organizzavano sotto la protezione delle aquile romane in piena pace regolari cacce agli schiavi nelle Province dell’Asia Minore»: «Il fogliame è giallo in autunno», direbbe Brecht.

 

Un altro esempio della struttura dialettica del film è dato dall’inquadratura che chiude il discorso del Banchiere. In questa immagine confluiscono, quasi sommandosi, quattro precedenti serie di fotogrammi neri, finché il volto del Banchiere si blocca in un’attesa che si romperà solo col successivo fragore del torrente, nell’inquadratura successiva. «Cicerone fece del resto allora il suo discorso di debutto. Parlò per l’attribuzione del comando supremo a Pompeo. Da dove ottenesse l’onorario, Lei lo può calcolare». Su questa battuta, il Banchiere rimane immobile fissando lo sguardo e consegnando la problematica alla nostra interpretazione. La stessa cosa era  accaduta al termine della passeggiata sul sentiero dietro la villa, quando il Giovane, accompagnato dalla macchiana-a-mano con passi dell’operatore all’indietro, aveva dato la versione libresca della storia, offrendola alla contestazione del Banchiere, ma anche, col suo attimo di silenzio, alla nostra verifica. E la stessa cosa accadrà nell’ultima inquadratura, che è tutto meno che un’inquadratura “finale”.

 

L’apertura strutturale di Lezioni di storia non è, del resto, carattere esclusivo di una certa linearità sintagmatica. Tale linearità è anzi esplicitamente interrotta dalle tre sequenze-travelling del trasferimento del Giovane in automobile per le vie di Roma, e non certo per isolare il film in tanti blocchi “belli e fatti”. Anche il suono, col suo parlato antinaturalistico opposto alla registrazione dell’ambiente, non ammette passività contemplativa, ma richiede un ascolto attento e un continuo lavoro sull’asse della selezione, rispetto a se stesso e rispetto al visivo. Anche il sonoro, cioè, non sopporta riduzioni di “contenuto” né di concretezza fisica, giacché la sostanza auditiva discorre già di per sé, e a suo modo, col proprio riferimento iconico. Ce lo dimostrano appunto le tre sequenze dell’automobile, dove in funzione sincronica interagiscono tutti gli elementi strutturali del film. L’affabulazione tocca il suo livello minimo e il senso del film è affidato quasi esclusivamente all’autenticità del procedimento. L’automobile è mezzo di trasporto e insieme veicolo cinematografico, non semplicemente perché la macchina da presa che vi è installata, oltre che inquadrare il Giovane alla guida, riprende i luoghi del percorso; ma soprattutto perché non riprende tutto ciò che, sincronicamente e diacronicamente, ad essi si oppone: compreso il sonoro, il cui campo di registrazione non può coincidere con il limite dell’inquadratura. L’esibizione caparbia dei contorni materiali del filmato, suggerisce il loro sconfinamento nel momento stesso in cui ne esalta le difficoltà o quasi-impossibilità. E’ come un progetto di un altro film. La pienezza prospettica dello sguardo (obbiettivo 9) e la sua insistenza (durata delle tre sequenze: 8’45”, 10’20”, 10’39”) svuotano l’inquadratura della propria referenzialità, progressivamente, fino a ridurla del tutto disponibile ad altri percorsi e ricerche, in altri tempi e spazi. Quali? Quelli di Roma antica, degli artigiani e degli schiavi tenuti fuori dalla mappa marmorea dell’Impero, ma vivi e sempre risorgenti come l’acqua che sgorga da una duratura fontana? Da un discorso ne nasce un altro, basta sapere che un film non è un’automobile – e non fregarsi le mani preannunciando l’incomprensione delle masse.

 


Franco Pecori, Straub/Huillet, Lezioni di storia, in Il laboratorio di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, La Biennale di Venezia, 1975.


 

 

Geschichtsunterricht

 

Regia e découpage: Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, dal romanzo di Bertolt Brecht Die Geschäfte des Herrn Julius Caesar (Gli affari del signor Giulio Cesare).

Fotografia: Renato Berta, Emilio Bestetti.

Suono: Jeti Grigioni.

Musica: Johann Sebastian Bach.

Assistenti: Leo Mingrone, Sebastian Schadhauser, Benedikt Zulauf.

 

Interpreti: Gottfried Bold (il banchiere), Johann Unterpertinger (il contadino), Henri Ludwigg (l’avvocato), Carl Vaillant (lo scrittore), Benedikt Zulauf (il giovane).

 

Produzione: Straub-Huillet.

Riprese: agosto-settembre 1969, a Roma (terrazza di Settimio Severo sul Palatino e Villa Doria Pamphili), con una Eclair-Coutant, 4 obbiettivi Cooke e un Nagra.

Pellicola: Eastmancolor 7254 da Rochester (7.560 metri di negativo).

Durata: 88′.

Costo: 65.000 marchi (circa 11 milioni di lire).

Prima proiezione: Festival di Mannheim, ottobre 1972.

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10 Settembre 1975