La fine è il mio inizio
Das Ende ist mein Anfang
Jo Baier, 2010
Fotografia Judith Kaufmann
Bruno Ganz, Elio Germano, Erika Pluhar, Andrea Osvárt, Nicolò Fitz-William Lay.
Una vita in giro per il mondo a vedere come e perché il mondo cambia, le ragioni, i torti, la fame, la morte, le guerre, i grandi rivolgimenti e anche i piccoli casi, le situazioni più circoscritte, i continenti e la natura; e infine di nuovo la terra e il paese natio, dove tornare per vivere la fine. Viverla sapendo che il male l’ha resa vicina e ascoltando dentro di sé la lezione della vita, ora che l’universo e l’io si possono sentire come tutta una cosa. Dal Vietnam alla Cina e all’India, infine la Toscana, la casa in campagna e vicino ai monti dove immaginare sparse le proprie ceneri. Letteratura? Anche, certo. Tocca al figlio Folco (Germano) l’ultimo compito, di salire al monte e dalla cima far volare la polvere del padre Tiziano Terzani, il quale così ha lasciato detto. Terzani (Ganz) è stato un giornalista/filosofo, ha fatto tesoro delle più diverse esperienze che gli sono capitate e poi ha cercato di tirare il filo d’un ragionamento non astratto bensì pieno di sentimento, unendo le idee alle sensazioni e lasciandosi morire con attenzione e con passione, quasi per non lasciarsi sfuggire l’occasione di un estremo godimento. Ha voluto accanto a sé, insieme alla moglie Angela (Pluhar), il figlio facendolo tornare da New York per dettargli il racconto di com’è andata la propria vita. Ma non un succedersi di avvenimenti, piuttosto la composizione poetica d’un rimuginare conclusivo. Arriva anche la figlia Saskia (Osvárt), con il nipotino in grembo, pronto al cambio di generazione. Tutto sommato una fiaba istruttiva, “tratta dalla realtà” e approdante a un orizzonte cosmico alquanto scontato. Ma poi c’è il cinema e tutto cambia. Vecchio con la barba bianca, Ganz dà corpo e anima al personaggio fino a convincerci di stare soffrendo (non è un termine del tutto negativo, lo vediamo) la fine. Il regista (il tedesco Baier viene dalla televisione e anche questo – diremmo soprattutto questo – è una sorta di miracolo, forse anche più importante del racconto stesso) si comporta come se il testo scritto non vi fosse: lascia che siano la cinepresa e la moviola a fissare e montare, col sonoro in diretta, il ritmo della vita che se ne va, che sosta ed esita, che approfitta d’un ultimo respiro per confermare lo slancio di un sentimento, il ricordo di una scelta, il tempo di uno sfogo. Padre e figlio vivono le registrazioni come appunti d’un tessuto che va conformandosi al disegno non pregresso, che invece si delinea nelle inquadrature, nel tempo degli stacchi. Si apre una porta, si entra in una stanza, si siede con Folco accanto all’uomo che muore in pace e racconta, sospira, fa battute, si prende anche in giro. Mentre Ganz fa il miracolo di divenire Terzani senza mai, tuttavia, nascondersi dietro di lui, Germano, con una delle sue più convincenti interpretazioni, lo “assiste” rendendolo credibile fino in fondo, col mettere in gioco anche il proprio corpo, il proprio sorriso e la propria “rugosa” passionalità, contenuta e verosimile. Quando il film finisce, sembra di aver attraversato l’eternità, che invece è la storia. Eppure non siamo stanchi.
Franco Pecori
1 Aprile 2011