Per mio figlio
Moka
Regia Frédéric Mermoud, 2016
Sceneggiatura Frédéric Mermoud, Antonin Martin-Hilbert
Fotografia Irina Lubtchansky
Attori Emmanuelle Devos, Nathalie Baye, David Clavel, Diane Rouxel, Samuel Labarthe, Olivier Chantreau, Jean-Philippe Ecoffey, Marion Reymond, Paulin Jaccoud.
Per suo figlio? Lo svizzero Frédéric Mermoud, al secondo lungometraggio dopo Complices (2009), è un regista attento alla dimensione interiore dei personaggi, ma non trascura le istanze comunicative verso un pubblico non esclusivamente cinefilo, come ha dimostrato con il successo della serie tv Les Revenants. Dal festival di Locarno 2016 arriva sugli schermi italiani la storia tratta da Moka, romanzo di Tatiana de Rosnay. Il titolo originale si riferisce al colore della Mercedes, l’auto che ha investito e ucciso Luc (Paulin Jaccoud), il figlio adolescente di Diane (Emmanuelle Devos), madre inconsolabile e decisa a scoprire l’identità del conducente di quella macchina che non ha creduto di doversi fermare a soccorrere il ragazzo. Il marito, Simon (Samuel Labarthe), non riesce a frenarne il desiderio di vendetta. Raccolta la segnalazione di un detective privato (Jean-Philippe Ecoffey), la donna parte per Evian, la cittadina dov’è stata individuata la Mercedes. E porta con sé una pistola. Il motore interno dell’azione non girerà però in modo così semplice. Diane trova ad Evian il proprietario dell’auto (David Clavel) e soprattutto sua moglie Marlène (Nathalie Baye), la bionda che forse era al volante la sera dell’incidente. La ritroviamo anche noi, è un tuffo in un cinema che, per sua propria natura, si fa indagine e scopre cose di cui di solito non osiamo parlare. Truffaut, Godard, Chabrol. Procedendo il film, Diane non va più tanto diritta alla vendetta, entrano in gioco altri elementi della sua vita, sfumature non dette, turbamenti sottili. Non più soltanto Diane, anche Marlène. Ad ogni sequenza sta per nascere un rapporto nuovo, è un continuo esterno/interno non-esplicito, percepibile con la sensibilità di uno spettatore disponibile a partecipare al flusso narrativo adottando la stessa cadenza di montaggio scelta dal regista. E qui notiamo, evidente, un uso della moviola che diremmo inverso a quello che segnò, su indicazione del maestro della critica francese degli anni ’50, André Bazin, un certo carattere “curioso” della cineripresa – intendiamo il suggerimento del dare importanza all’istante successivo rispetto allo stop previsto per chiudere il singolo ciak. Mermoud taglia invece un attimo prima, pre-scrivendo così la probabile metafora, in maniera ellittica. È il segno del tempo che passa, di un cinema cosciente della propria storia, ma è anche una scelta di poetica “trasgressiva” verso un tempo che abbiamo potuto vivere insieme – per così dire – alla vita stessa del set percepita dallo schermo. In questo senso la bravura delle due attrici principali non riesce a colmare fino in fondo l’ostacolo al mistero e il possibile risvolto della “missione” della madre assetata di vendetta risulta affidato a una progressiva chiarificazione non tanto schermica quanto narrativa. Ed è un punto in meno.
Franco Pecori
17 Novembre 2016