Il peccato
Grekh
Regia Andrei Konchalovsky, 2019
Sceneggiatura Andrei Konchalovsky, Elena Kiseleva
Fotografia Aleksandr Simonov
Attori Alberto Testone, Jakob Dieehl, Francesco Gaudiello, Federico Vanni, Glenn Blackhall, Orso Maria Guerrini, Anita Pititto, Antonio Gargiulo, Massimo De Francovich, Simone Toffanin.
“Al naturale” è un problema. Ammesso che la vita nella Firenze e nella Roma del Cinquecento fosse immersa nella “spazzatura” (lasciamo anche perdere fantasmatiche analogie con la Roma di oggi) – fango, sputi, scoli, sangue, merda, assenza di bagni e di parrucchieri – volevamo davvero toccare con mano l’aspetto immondo dell’artista e del suo contesto? Per avere cosa? Diminuisce la distanza tra noi e Michelangelo Buonarroti (la sua Opera, parametro implicito e pur imprescindibile) rispetto a quella tra noi e la Gioconda, vista in esposizione e digiuni della presenza “al naturale” di Leonardo Da Vinci? Se il valore estetico delle opere lo diamo per scontato e definitivo, va bene. Del resto è ciò che accade nella diffusa (diffusissima) sensibilità culturale di cui siamo partecipi. Chi ritorna, per caso, a “rileggere” seriamente i capolavori classici, a valutarne e rivalutarne il valore? La scuola? Provate a domandare al primo studente che vi capiti. Ma restiamo al film. Il moscovita Konchalovsky passa dalla sofisticata astrazione progettuale di Paradise (Leone d’Argento a Venezia 2016) all’estremismo verista di un’indagine verso il sogno del “vissuto” di un personaggio come il Michelangelo che la Storia ci ha consegnato e riconsegnato secondo tratti definiti (ah quel non-finito della Pietà Rondanini… il contrario di “al naturale”). Il regista fa del suo film un manifesto di protesta contro l’iconologia di una tradizione moderna colpevolmente adagiata su stereotipi “rinascimentali” arresi al consumo televisivo. E costruisce una figura “impura”, di un uomo che gli altri, anche i papi, chiamano genio e che si muove a scatti, guarda con occhi allucinati, sorride con espressione sommessamente diabolica, spesso ubriaco, sfinito dalla fatica e dalla polvere del marmo, fissato nell’attrazione del blocco mostruoso e impossibile da trasferire giù per la montagna; un uomo pronto al traffico in nome dell’arte, devoto al fiorino e a Dante Alighieri, avido di gloria. Attorno a lui, la confusione di un secolo tutt’altro che fulgido, intronato nelle lotte di potere e pazzesco nel rimescolamento di valori. Altro che Rinascimento. Va bene, ma l’arte? Se siamo così vicini al corpo del Buonarroti, dobbiamo restare lontani dalla sua arte? La distanza non è in qualche modo da colmare? V’è solo un cenno durante il film, quando Michelangelo si lascia sfuggire un “Vien da sé”. Ma non è da lui in persona e “al naturale” che aspetteremmo, in quel contesto, diversa spiegazione. Altri se ne occupino, ovvio. Invece, come non avvertire nel film il senso dell’artificio scenografico, l’aggiustamento figurativo, la sottolineatura linguistica e semiologica (i dialetti e gli stracci), scelte che altro non sono, non risultano essere se non l’esposizione, la sottolineatura del progetto estetico? Viene in mente, nel diverso quadro massmediologico, la spinta della mamma “moderna” alla figliola perché si mostri a dovere durante la gara di bellezza, qui bruttezza del viver quotidiano. Secoli fà? La domanda non sembra del tutto fuori luogo. [Festa del cinema di Roma 2029, Evento Speciale]
Franco Pecori
28 Novembre 2019