Proprietà privata
Nue propriété
Joachim Lafosse, 2006
Isabelle Huppert, Jérémie Rénier, Yannick Rénier, Patrick Descamps, Kris Cuppens, Raphaëlle Lubansu, Didier de Neck, Dirk Tuypens, Sabine Riche.
Profumo d’autore. Tra Godard e Charbrol, tanto per intenderci. Non perché vi siano esplicite analogie di contenuto o di forme espressive, ma per il metodo di mettere insieme le sequenze, secondo la lezione della Nouvelle Vague. E’ passato quasi mezzo secolo da quando André Bazin indicò il carattere di un realismo del cinema nella disponibilità del regista a lasciar “respirare” l’inquadratura oltre il taglio previsto dal découpage: ne sarebbe scaturita quella sorta di verità del set, complemento quasi sempre indispensabile alla coerenza del film, al progetto autoriale, al disegno di un racconto non imprigionato nella rigidità della sceneggiatura “di ferro”. E fu Bazin a insegnare a tutti, anche a noi italiani, la lettura più corretta, più produttiva, del cinema di Rossellini. Questa Proprietà è, paradossalmente, non così privata. Regista con esperienza di teatro, il belga Lafosse inquadra le situazioni di una famiglia in via di disgregazione, lasciando da parte gli impliciti riferimenti sociologici e restando all’occhio critico della macchina da presa. Pascale (Huppert sempre fantastica), madre di due gemelli sui 18-20 anni, divorziata, ha sacrificato la propria autonomia di donna per crescere i figli. E, ora che sente di dover pensare finalmente a se stessa, i due ragazzi tendono a impedirle qualsiasi iniziativa. Il nucleo è come ancorato nello spazio, anche simbolico, della casa di campagna dove i tre vivono le loro giornate. Pascale vorrebbe vendere la casa per prendere altre iniziative e vivere a modo suo, ma quella proprietà, che l’ex marito ha lasciato ai figli, non si tocca. Lafosse riesce a trasformarla in un pezzo di vita entro cui siamo invitati ad entrare. Siamo a tavola con Pascale e i suoi due gemelli mentre mangiano, siamo con loro mentre si spostano nel soggiorno, mentre si trastullano col videogame, mentre, di parola in parola, cresce la tensione e aumenta la distanza. Godard ci suggerisce “due o tre cose che sa di loro”, con i movimenti di scena tanto naturali quanto esemplari; Chabrol ci avverte del rischio “giallo” che la vicenda nasconde in sé e che, da un momento all’altro, può venir fuori. La suspense è esterna al genere thriller, ma c’è ed è intensa. E ci conduce al finale inesorabile. Inesorabile ma non “chiuso”. E proprio per questo anche più amaro, sottolineato dall’esplosione di una musica drammatica e “fredda”, mentre in un lungo camera-car ci allontaniamo dal set – ma non dalla vita.
Franco Pecori
16 Marzo 2007