Triage
Triage
Danis Tanovic, 2009
Fotografia Seamus Deasy
Colin Farrell, Paz Vega, Christopher Lee, Kelly Reilly, Jamie Sives, Branko Djuric.
Roma 2009, concorso.
Mark (Farrell, notevole la sua interpretazione) è un bravo fotoreporter di guerra. Sempre in prima linea a contatto diretto con gli orrori e con i rischi della professione, spesso si fa scudo dell’ironia e di una certa dose di cinismo – il film si apre con la scritta: «In guerra si muore perché si muore. Si muore e basta». Di ritorno a Dublino dal Kurdistan irakeno (siamo nel 1988) dov’è stato in coppia col suo collega e amico David (Sives), Mark non sembra più lo stesso. Sua moglie Elena (Vega) nota in lui un’insolita tristezza e anche nel fisico l’uomo appare minato oltre misura rispetto all’infortunio che dice di aver avuto. Noi non lo abbiamo visto, ma abbiamo assistito alla sua drammatica “sosta” in una specie di orrido pronto soccorso e centro di accoglienza/smistamento (“triage”) dei feriti, dove il Dottor Talzani (Djuric) uccideva con la pistola gli irrecuperabili per evitare loro sofferenze troppo atroci. Elena ha un nonno psichiatra, specializzatosi a suo tempo nel “recupero” dei criminali della guerra civile spagnola. Il vecchio “fascista” Joaquin Morales (Lee) sarà però utile per risolvere in positivo i “disturbi” di Mark, sempre più accentuati man mano che David, non essendo tornato insieme al suo amico, sembra ormai dover essere dato per disperso. E la moglie Diane (Reilly) sta per dare alla luce una bambina. «Portare il dolore con noi sempre, questo è vivere», ammonisce lo psichiatra. In effetti, l’incubo della guerra, con i massacri e i lutti di cui è stato testimone (non mancano scene da “voltastomaco”), persiste in Mark non diversamente – si pensa – che in tanti reduci, da quella e da altre guerre. Il bosniaco Tanovic (No man’s land, Oscar nel 2001, 11’09”01, September 11 – episodio Bosnia Erzegovina, 2002) non desiste dal rappresentare, con stile comunicativo non privo di soluzioni forti, gli effetti della guerra. Dopo la parentesi “drammaturgica” di L’enfer (2005), eccolo alle prese con la tragedia dell’antichissimo popolo curdo. Non immune da tentazioni letterarie (“intervalli” dialettici/filosofici spiegano con cadenza regolare le ragioni e le situazioni dei personaggi), il regista si affida alla vera e propria divulgazione con il ruolo di Joaquin Morales, sostenuto per altro dignitosamente dal mitico Christopher Lee. Tutto sommato, al di là dei dettagli truculenti nelle scene di guerra, il momento decisivo del film è nella citazione finale. Sono parole del filosofo ateniese Platone (427-347 a.C.): «Solo i morti hanno visto la fine della guerra».
Franco Pecori
27 Novembre 2009