L’infanzia di un capo
The Childhood of a Leader
Regia Brady Corbet, 2015
Sceneggiatura Brady Corbet, Mona Fastvold
Fotografia Lol Crawley
Attori Bérénice Bejo, Liam Cunningham, Tom Sweet, Robert Pattinson, Yolande Moreau, Stacy Martin, Caroline Boulton, Sophie Curtis, Rebecca Dayan, Rebecca Dayan.
Premi Venezia 2015, Orizzonti: Leone del futuro, regia.
Piccoli scatti d’ira segnalano la mancanza di un’evoluzione armonica nella fanciullezza di Prescott (Tom Sweet). Il piccolo vive con i genitori in una villa nelle vicinanze della capitale francese. Il padre (Liam Cunningham) è Segretario di Stato, consigliere del presidente degli Stati Uniti, Wilson; sta lavorando per quello che sarà il complicatissimo patto di Versailles, nell’ambito della Conferenza di pace di Parigi (1919). La madre di Prescott (Bérénice Bejo) ha una vita molto ordinata e affida il figliolo principalmente alle cure della tata (Yolande Moreau) e della giovane insegnante di francese (Stacy Martin). L’attore Brady Corbet (Funny Games, Melancholia, Giovani si diventa), alla sua prima regia, ha definito il film “la storia di un’infanzia da cui emergerà un dittatore”. Il periodo storico di riferimento è tale da non lasciare molto spazio alla fantasia, ma il film – Corbet attinge a un racconto di Jean-Paul Sartre e al romanzo “Il mago” di John Fowles – più che all’individuazione di un personaggio preciso della storia punta a rappresentare un modello di comportamento, una via di difficile “crescita” psicologica, per cui quel bambino potrà diventare un uomo pericoloso. In un primo episodio, Prescott tira sassi alle persone che escono dalla chiesa dopo la funzione serale. Poi si rifiuta di chiedere scusa al prete. E man mano che i suoi comportamenti richiederebbero una diversa articolazione, il piccolo si chiude, mostrando un represso interesse erotico verso l’insegnante e chiudendosi infine in un’ostinata autoreclusione nella propria camera. La “disubbidienza” lo porterà a subire lo scontro anche violento con il padre e determinerà lo scioglimento forzato dell’armonia in famiglia. Poi la Grande Guerra finisce, lasciando le nazioni nella grave tensione di una “pace” che a qualcuno sembrerà piuttosto “un armistizio per vent’anni”. E quella certa atmosfera cupa del periodo storico caratterizzato dal blocco incombente della morale e dal taglio prospettico delle convivenze viene rappresentata dal regista in un finale retorico, di pesante sensibilizzazione estetica, contraddittoria rispetto alla precedente scansione scenica, quasi didattica, psicoanalitica nel configurare i dettagli significativi di un destino inesorabile. Sicché, quel che era potuto sembrare un andamento narrativo/stilistico simil-Haneke – anche per il periodo storico pre-nazista cui faceva riferimento Il nastro bianco (Palma d’Oro 2009) – si perde in uno smaccato e non necessario didascalismo esibizionistico.
Franco Pecori
29 Giugno 2017