Miele
Miele
Regia Valeria Golino, 2013
Sceneggiatura Francesca Marciano, Valeria Golino, Valia Santella
Fotografia Gergely Pohárnok
Attori Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero De Rienzo, Vinicio Marchioni, Iaia Forte, Roberto De Francesco, Barbara Ronchi, Massimiliano Iacolucci, Claudio Guain, Elena Callegari, Teresa Acerbis, Jacopo Crovella, Valeria Bilello, Gianluca De Gennaro.
Esordio nella regia (dopo il corto Armandino e il MADRE, 2010) di Valeria Golino, attrice consapevole del cinema di qualità (con registi come Peter Del Monte, Citto Maselli, Barry Levinson, Gabriele Salvatores, Silvio Soldini, Sean Penn, John Carpenter). Colpisce, prima ancora del difficile tema affrontato, del “fine vita” e dei metodi e degli scrupoli, il sicuro dominio del piano espressivo. Il modo di inquadrare, tagliare e montare le inquadrature e le sequenze è il segno di un punto di vista non-prospettico, col quale si afferma una visione non lineare e dialettica non soltanto nelle soluzioni stilistiche ma nell’estetica complessiva della scrittura cinematografica, omogenea al narrare e al comprendere. I diversi tipi di campo, dal totale al dettaglio, articolano il procedimento secondo un fare riflessivo, indagatore e “sensitivo”, dal cui farsi si produce il senso, scartando sempre il cammino contrario, dell’uso didascalico dell’immagine rispetto al racconto. Ne risulta un pulsare vicino alla vita e non lontano dalla ragione, una correlazione di pertinenze anche diverse e mai, però, disaggregate, né sul piano progettuale né su quello della pratica filmica. Di momento in momento, mentre vediamo l’inquadratura che nasce, mentre seguiamo lo sguardo che si sviluppa nel montaggio, elaboriamo un discorso interno alla stessa “moviola/regia”, facciamo “corpo unico” col film di cui siamo spettatori. Siamo lontani dal film “per dibattito” (sull’eutanasia), la “presenza” della protagonista e di tutti i personaggi non lascia spazio al pretesto, le immagini tagliano via – per spazio e per tempo – la traccia letteraria del romanzo di partenza (“A nome tuo” di Mauro Covacich) e impongono una partecipazione che può giustificare anche alcune omissioni o “trascuratezze” verso aspetti secondari della vita di relazione della protagonista. Irene (Jasmine Trinca al meglio delle sue qualità di attrice “spontanea”) si fa chiamare Miele dai malati che (a pagamento) aiuta a morire. La procedura, clandestina e pericolosa, ha le sue regole, Irene le sente nel cuore, le segue con discrezione cercando di restare fredda e lucida. Un brivido ci passa quando la vediamo intascare il compenso perché crediamo di conoscere il carattere della ragazza (trentenne), la sentiamo vicina grazie all’uso non-documentario del suo pedinamento, nel suo spostarsi da un malato all’altro entrando nelle case, controllando i sentimenti di morte, rispettandone le libertà anche convenzionali. Sentiamo un brivido intellettuale, ma poi la cinepresa stacca “indifferente” sul resto della giornata di Irene, sembra non essersi accorta, o forse non poteva accorgersi di differenze profonde, di sensibilità intaccate, di sussulti della mente, di commozioni represse, di finalità inconfessate. E la cinepresa fa quello che può, coglie uno scatto improvviso nei movimenti di Miele, indugia fuggendo sul particolare di un gesto, sull’esplosione di un impulso sessuale, sulla curiosità di un trasferimento. Segue con discrezione, non si nega il dubbio, anzi lo coltiva non lasciando al caso i dettagli di una cancellazione, le necessità di una sosta. Tutto fila senza una meta. Purtroppo il processo narrativo rischia di perdere la sua coerenza quando interviene il personaggio di Carlo Grimaldi (Carlo Cecchi), la cui amarezza costruita stona nel contesto drammatico dei viaggi di Miele verso i suoi malati terminali. Carlo è in salute, dice di voler morire per disgusto della vita: la sua richiesta è estranea all’attività di Irene. Qui entra in gioco un “ragionamento” esplicito che, sia pur mascherato abilmente da ambiguità esistenziale, contrasta con l’agghiacciante “bontà” della prima parte del film. La regia prende ora a raccontare una vicenda, forse addirittura una “storia impossibile” di Irene con l’anziano ingegnere. Impossibile e quindi interrotta (non diciamo come), ma comunque “storia” sentimentale che viaggia sul binario più normale. Resta tuttavia valido il giudizio sul metodo espressivo, ottimo inizio di una creatività applicata con ragionevole sentimento.
Franco Pecori
1 Maggio 2013