Da 5 Bloods
Da 5 Bloods
Regia Spike Lee, 2020
Sceneggiatura Kevin Willmott, Spike Lee, Danny Bilson, Paul DeMeo
Fotografia Newton Thomas Sigel
Attori Delroy Lindo, Clarke Peters, Norman Lewis, Isiah Whitlock Jr., Jonathan Majors, Mélanie Thierry, Paul Walter Hauser, Jasper Pääkkönen, Jean Reno, Chadwick Boseman.
Pezzi di storia che, a parlarne dopo il passaggio del millennio, creano imbarazzo in forma di attualità. Storia viva allo sguardo obbiettivo e alla passione personale: che ne soffrano persone singole, gente che abbia vissuto sulla propria pelle la guerra del Vietnam, o che sia invitata a riconsiderare vicende che hanno segnato i destini del mondo, con il sangue, con l’ingiustizia, con il peso di scelte morali misurate sulla portata del fuoco, sul seguito di esiti sociali e culturali che continuano a turbare la coscienza universale. Nel complesso, un imbarazzo che coinvolge, un film che pesa, continua a pesare lungo il doppio asse di scelta-combinazione riferendoci al quale non possiamo liberarci dalla partecipazione emotiva e soprattutto ideale. In sintesi, Vietnam è ancora parola drammatica, ricordo dirompente, progetto incompiuto, calendario non smaltito, dolore affettivo nei diversi sensi della Storia. Sul ciglio di un sapere saputo e di un’offerta spettacolare da questo punto perfino rischiosa, Spike Lee fa il passo lungo di un’arte “a venire”, come se si sentisse, egli stesso, primo di una serie auspicabile, non solo per un dovere di “civiltà”, bensì per la dovuta “esposizione” di un materiale vivo, da non cannibalizzare. Quattro “fratelli” veterani col peso degli anni e con il macigno dei ricordi nella mente e nel cuore, si ritrovano per un impegno e per un interesse lasciato in sospeso da una cinquantina di anni. È cambiato il mondo? Potranno farcela a rientrare in quel mood che li ha costretti a un patriottismo scettico, mandati come furono al massacro nel nome di un’America bianca tutt’altro che protettrice verso i loro destini di afroamericani tuttora “indegni” di giusta parità? Due le ragioni della “rimpatriata”, non certamente ragioni goliardiche. C’è un tesoro da recuperare, lingotti d’oro. I “fratelli” furono in cinque. Tornati in quattro, piangono ancora la perdita del loro caposquadra, Stormin’ Norman (Chadwick Boseman), colpito a morte durante uno scontro a fuoco nella jungla. Non era uno Zio Tom, era il loro Malcolm. Soprattutto il ricordo di quel giovane impegnato è molto vivo in Paul (Delroy Lindo), il più animoso dei protagonisti. S’intuisce che è specialmente suo il travaglio di quegli anni passati e di un presente difficile da “sistemare”. «È tutta la vita che mi fottono – dice all’inizio – ora penso a me», ma si capisce che le sue reazioni non sono leggibili come semplice svolta “privata”. E lo vedremo fino alla fine. Lungo due ore e mezza, il film ondeggia tra sequenze di “antica fratellanza” e dinamismi avventurosi durante i quali seguiamo Paul, Otis (Clarke Peters), Eddie (Norman Lewis) e Melvin (Isiah Whitlock Jr.) in una “caccia al tesoro” che Lee ha il merito di non “meccanizzare”, fissandone la portata drammatica. Il dramma è interno alla storia (Vietnam) e insieme interiore, al di qua del pericolo di un generico richiamo tematico. La trovata di mantenere il medesimo volto dei quattro attori sia per il narrato “pregresso” che per il “presente” iniziale, toglie al montaggio il senso di “flash” narrativo a vantaggio di una composita linea storica ed evita il rischio di inutili psicologismi. Non mancano certo sequenze rafforzative in prospettiva di intrigo e di azione, si tratta di accettare compromessi “pratici” per il trasferimento del tesoro, dovendo comunque affrontare l’intrigo internazionale sul filo di tensioni di genere. E le complicazioni della sopraggiunta presenza di David (Jonathan Majors), figlio di Paul, rischiano di “condire” l’avventura di una componente usuale sul tema dell’amore/conflitto padre-figlio, le cui ragioni restano esterne al tema centrale. Così pure l’inserto della figura di Hedy (Mélanie Thierry) – come Hedy Lamarr! – esperta francese di operazioni di sminamento (possibile amore con David), non sposta l’attenzione dal filo conduttore. Il pericolo è sostanzialmente evitato, la regia di Lee regge il peso del tema socio-politico ancora molto vivo, specie in momenti come l’attuale, in cui l’America denuncia ancora gravi difficoltà a risolvere il conflitto razziale interno. La chiusura, affidata alle vive parole di Martin Luther King («L’America non sarà mai libera o salvata da sé stessa, se i discendenti degli schiavi non saranno liberati dalle catene che ancora li legano» – 4 aprile 1967), invita al necessario sguardo prospettico per il quale gli anni che passano segnano tuttora il peso della Storia. Il film si era aperto, con movimento significativamente inverso, sulle parole di Muhammad Ali: «La mia coscienza non mi permette di sparare a un mio fratello. E perché dovrei sparargli? Non mi hanno mai chiamato “negro”. Non mi hanno mai linciato» (Chicago, 26 febbraio, 1978). [Disponibile su Netflix]
Franco Pecori
12 Giugno 2020