La doppia ora
La doppia ora
Giuseppe Capotondi, 2009
Fotografia Tat Radcliffe
Ksenia Rappoport, Filippo Timi, Antonia Truppo, Gaetano Bruno, Fausto Russo Alesi, Michele Di Mauro, Lorenzo Gioielli, Lidia Vitale, Giampiero Iudica, Roberto Accornero, Lucia Poli, Giorgio Colangeli.
Venezia 2009, Ksenia Rappoport Coppa Volpi.
Sonia lavora di fantasia. E ce lo fa pesare, tanto che alla fine ci interroghiamo sul valore del gioco e della candela. La sua storia si segue con fatica, il regista ci tiene sul filo del conscio/inconscio-realtà/immaginazione, in una semplice ambiguità che finisce per sovrapporsi al carattere stesso della protagonista, una giovane slovena venuta a Torino da Lubiana nella speranza di recuperare il rapporto col padre italiano (Colangeli). Cameriera in hotel, Sonia (Rappoport, brava e superpremiata a Venezia) sembra cercare la propria identità. Da come Capotondi ce la presenta siamo portati a immedesimarci nella misteriosa vaghezza dei suoi sentimenti, nel suo rapportarsi all’ambiente in maniera sofferta. Quasi subito, dopo l’inizio, abbiamo l’impressione che il destino della ragazza si stia colorando di giallo. Ma ci accorgeremo presto che siamo all’opposto di Hitchcock, la cui suspense si fonda soprattutto sul metodo di mettere lo spettatore al corrente dell’accaduto o almeno di un pericolo, inchiodandolo quindi alla poltrona per la curiosità di vedere quel certo sviluppo. Qui invece non sappiamo quasi niente e, man mano, sappiamo sempre di meno, incastrati in un’ingannevole metaforizzazione del reale, che solo in chiusura ci verrà rivelata. Giustamente il regista (al suo primo lungometraggio dopo video musicali e spot pubblicitari) nelle note di regia ci consiglia di non seguire troppo le indicazioni di genere che possiamo intravedere nel film (noir, thriller, horror, ecc.) e di badare invece al «percorso interiore» dei personaggi, Sonia e Guido (Timi, bravo anch’egli, nella parte dell’ex poliziotto ridottosi a guardiano di una villa lussuosa), portatori di pathos diversi che si fondono in un’unica traccia. I due s’incontrano in un locale di appuntamenti molto convenzionali (“Speed Date”) e scocca la scintilla. Ma «nessuno è come sembra», dice Capotondi. Somma ambizione di un autore o banalizzazione di un pensiero filosofico? Dal punto di vista artistico, la prima parte del film prometterebbe bene. Non diremo Antonioni, ma certo si nota un’accurata attenzione nell’intrecciare contiguità e analogia ad ogni stacco/attacco, per cui le inquadrature producono una ricchezza di senso che tendenzialmente va al di là del referente. In un continuo dentro/fuori siamo portati a cogliere suggerimenti ulteriori offertici dallo stesso “materiale plastico” catturato dall’obbiettivo. E però il procedimento si rivela non proprio autentico, in quanto finisce per perdere ben presto quella sua finalità interna per mettersi invece al servizio della copertura artificiosa del senso, per crearci – si direbbe quasi – un’inutile difficoltà d’interpretazione narrativa. Entra in gioco un artificioso e confuso incidente da “cronaca nera” (rapinatori nella villa, approfittando della distrazione sentimentale di Guido con Sonia) ed ecco che la nostra lettura si complica, non sappiamo più bene chi sia vivo e chi morto nella mente di Sonia, veniamo sorpresi con incalzante ricorrenza da bombe sonore che sottolineano i soprassalti della protagonista. Il piano stilistico non regge il peso del racconto, si apre alla furbizia del “non detto”, perde la carica intenzionale riducendosi a mera intenzione. Non resta che attendere l’ultima inquadratura. Tutto sommato, niente di che. È tipico del regista alla prima prova (specialmente se regista/autore italiano, dice l’esperienza) il cedere al supposto fascino intrinseco del cinema, a quella sua mirabile capacità/proprietà di catturare sensi occulti nei particolari evidenti. C’è chi, poi, accortosi del pericolo, cerca rifugio nella pratica dei generi (spesso illudendosi di una maggiore protezione); e c’è, molto più raramente, chi insiste con degni e duraturi risultati estetici nel perseguire i sentieri dell’arte. Di Capotondi verremo a sapere.
Franco Pecori
9 Ottobre 2009