La mia notte con Maud
Ma nuit chez Maud
Regia Eric Rohmer, 1969
Sceneggiatura Eric Rohmer
Fotografia Néstor Almendros
Attori Jean-Louis Trintignant, Françoise Fabian, Marie-Christine Barrault, Antoine Vitez, Léonide Kogan, Marie Becker, Anne Dubot, Guy Léger, Marie-Claude Rauzier.
Rohmer ci ha dato ancora una prova della sua posizione morale nei confronti del cinema come mezzo e della realtà come problema. Già il prologo della Collectionneuse parlava chiaro. Lo spettatore veniva messo in grado di impostare la fruizione secondo piani strutturali, in armonia con l’intenzione stessa dell’autore, il quale senza falsi pudori dichiarava il suo programma di impegno esistenziale nei confronti del mezzo, imponendosi di risolvere in modo non autoritario i rapporti di disponibilità esistenti tra sé e la macchina e tra questa e il materiale plastico. L’impegno è mantenuto anche all’inizio de La mia notte con Maud. Il procedimento è solo apparentemente diverso. In realtà, il denominatore stilistico è sempre quello del rispetto per la situazione e per i personaggi che si muovono all’interno di essa. L’atmosfera delle prime sequenze è il diretto corrispondente della problematicità del protagonista, resa attraverso il suo comportamento. La suspense “deterministica” derivante dalla tecnica dell’ inseguimento è integrata in un tipo di suspense “probabilistica”, in cui la sospensione del giudizio diviene condizione necessaria per la libera fruizione delle varianti proposte dall’autore (probabilità semiotica). In tal modo, l’inseguimento cinematografico può essere anche inseguimento “ideologico”, senza che per nulla siano forzate le possibilità del mezzo. Il taglio essenziale e il conseguente ritmo sostenuto delle prime sequenze sono in funzione di questa “direzionalità” del discorso. Il protagonista (Moi/Trintignant) si muove come se andasse incontro alla propria rivelazione, lungo l’indagine di una simpatia che sta per nascere. Uno sguardo, una biondina in bicicletta, una stradina, un labirinto in cui ci si perde.
Poi, l’incontro con Vidal/Antoine Videz, l’amico di scuola, ora professore di filosofia nella stessa cittadina di provincia in cui Moi svolge la professione di ingegnere e alimenta le sue riflessioni di moralista. Da qui il ritmo si allarga, l’inseguimento si fa ricerca. Vidal è molto bravo a parlare, di fronte a lui Moi non sa resistere e si lascia trascinare in una dimensione verbale, a metà tra il gioco dell’intelligenza e l’intelligenza del gioco. A questo punto entra in situazione (non “in scena”) il personaggio Maud.
Maud testimonia con la sua presenza il procedimento di catalisi tramite il quale Rohmer realizza il suo progetto: il traferimento organico del discorso dal piano dialettico a quello esistenziale. Organico anche perché non c’è alcun salto di stile, tutto avviene come per sbocco naturale (eppure siamo lontanissimi da qualsiasi naturalismo). La discussione tra Vidal e Moi rivive, si incarna ora, venendo a confronto e anzi a contatto con una terza esistenza che la contamina, la determina, la definisce nella misura in cui si contrappone ad essa come il “fatto” si contrappone alla sua formulazione. Maud ci racconta la sua storia con l’esposizione di sé, con l’autonomia-insufficienza di sé come “segno”, la drammatica necessità di sopravvivere e la consapevolezza di non poterlo fare se non incarnandosi in “relazione”. Per questo Maud esige una dimensione terrena, esige il contatto, non solo la riflessione. Per innamorarsi di lei bisogna aver capito parecchie cose del mondo, ma bisogna anche avere l’intenzione di vivere. Maud realizza una situazione di apertura, una concezione moderna, fatta di coscienza critica e di amorevole abbandono, di disponibilità e di controllo. Tutto su una base ironica, che dà al suo comportamento il senso fuggevole, complesso, ambiguo della vita vissuta. In rei si coglie la cifra stilistica di Rohmer. Mentre i due amici discutono di “scommesse esistenziali” e di “speranze matematiche” sfogliando Pascal, Maud si diverte a studiare il loro comportamento intervenendo nella conversazione con sapienti battute umoristiche che mettono sempre a nudo le debolezze dei suoi invitati. Terminato il cenare, tutti e tre passano in salotto. Sotto lo sguardo di Maud, le parole di Vidal e dell’amico ingegnere vanno perdendo di consistenza. Sopraggiunge la notte, che lascerà Vidal e Moi prigionieri di loro stessi; l’uno dei propri giochetti dialettici, l’altro della coscienza dei limiti in cui lo costringe la sua morale. Sicché, anche Maud rimarrà sola, con la propria disperata esigenza di concretezza.
La notte del giansenista/Trintignant è la notte del moralista ostinato teorico di se stesso e chiuso ad ogni esperienza che possa mettere in crisi la ua intimità. E’ la notte dell’intransigenza morale e insieme dell’egoismo di un complessato, il quale vive preso a metà tra le buone maniere del borghese di provincia e l’oscuro disegno di costruirsi una maschera difensiva che lo preservi da ogni promiscuità e incertezza, magari a prezzo dell’astrazione. Finirà con lo sposare proprio la ragazza per la quale l’ex marito di Maud ha piantato la famiglia: una studentessa tutta “casa e lavoro”, che sogna al mattino di conservare ciò che ha perduto la sera. Nel lungo e macchinoso finale, questo calo di situazione trova il suo “pendant” in una vera e propria discesa stilistica verso lo stereotipo, con la quale Rohmer spinge la sua coerenza fino all’ultima inquadratura. La ricerca di una diretta corrispondenza tra resaltà e problematica, tra continuo reale e sintesi espressiva comincia invero già a livello di ripresa, quando si determina il rapporto autore-mezzo.
Franco Pecori, La mia notte con Maud, in Filmcritica, n. 203, gennaio 1970
1 Gennaio 1970