Emotivi anonimi
Les émotifs anonymes
Jean-Pierre Améris, 2010
Fotografia Gérard Simon
Benoît Poelvoorde, Isabelle Carré, Lorella Cravotta, Lise Lamétrie, Jacques Boudet, Swann Arlaud, Pierre Niney, Stefan Wojtowicz, Alice Pol, Céline Duhamel, Philippe Fretun, Grégoire Ludig, Philippe Gaulé, Joëlle Séchaud.
Il sogno dei timidi: che proprio la timidezza possa divenire un’arma vincente contro gli ostacoli della vita. Ed è verosimile che quel sogno prenda la forma di un film. Il cinema non è la fabbrica dei sogni? La trovata di raccontare la storia di due timidi, la cui difficoltà a realizzarsi viene risolta nel principio dell’unione che fa la forza può avere successo solo se il racconto rispetta i suoi presupposti, i limiti precostituiti, di genere e di stile, in modo da giustificarsi in autonomia, senza ricorso a espedienti esterni – come dire: il timido incuriosisce in sé, fa ridere e commuove in quanto timido, meglio se timido in misura e in modo esagerato. Lo spettatore si potrà riconoscere o meno, senza l’obbligo di identificarsi. Libertà di divertimento. Pare che negli Usa, già decenni or sono, prosperassero associazioni di mutuo soccorso targate timidezza anonima, psicoterapia approssimativa. Al cinema qualcosa di simile può risultare oggi molto meno dannoso, anzi divertente. A patto che non si esageri nella rappresentazione e che, pur nella coerenza scientifica della costruzione dei caratteri cioè nella consapevolezza della qualità dei disturbi (siamo in zona psico), ci si mantenga nella giusta discrezione, in modo che la catena inevitabile dei paradossi non finisca per imprigionare, irrigidire il racconto in un’esibizione esemplare. Riguardo alla vicenda della cioccolataia Angélique (Carré), il primo invito a cena di Jean-René (Poolvoorde), il principale che l’ha assunta nella sua azienda fallimentare, possiamo dire che la regola rischia di mettere a disagio lo spettatore, il quale si sente come costretto a fingere di non accorgersi dei disturbi, per rispetto – diciamo – della supposta unicità dell’esempio. Nel senso che Amélie non sopporterebbe serialità. A dieci anni dal “favoloso mondo”, la fabbrica del cioccolato non pare sufficiente a colmare la distanza tra “realtà” (cinema) e cosiddetta realtà (sceneggiatura). Prevale l’ammirazione per la bravura eccelsa dei due protagonisti, Angélique (Carré) e Jean-René (Poelvoorde), l’uno più timido dell’altra e destinati a risolvere il problema con l’arte della recitazione, togliendo d’impaccio gli estranei alle loro intimità. La paura di vivere chi ce l’ha se la tiene ma intanto il film si può vedere. Anche con soddisfazione degli Emotivi Anonimi.
Franco Pecori
23 Dicembre 2011