Magic In The Moonlight
Magic In The Moonlight
Regia Woody Allen, 2014
Sceneggiatura Woody Allen
Fotografia Darius Khondji
Attori Colin Firth, Emma Stone, Eileen Atkins, Marcia Gay Harden, Hamish Linklater, Simon McBurney, Jacki Weaver.
Ambiguità del Male? Tutta la filmografia dell’autore di Manhattan, Anything Else, Match Point, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, Blue Jasmine contiene in maniera implicita il tema della “verità di se stesso”, ossia di come riuscire a – e se tentare di – svelare alla coscienza il proprio essere morale. Il tema della magia/menzogna viene qui affrontato appunto in chiave filosofica e psicoanalitica molto seria, nonostante la superficie del racconto faccia sembrare il film una pura commedia. Ed è una serietà che in alcuni momenti si fa feroce, riferibile a un certo modo del pensare comune, alle convenzioni bugiarde e colpevoli verso l’intera società. La storia è quella di Stanley Crawford (Colin Firth), un prestigiatore di successo, campione di trucchi, bravissimo e tanto arguto da essere anche famoso per la capacità di smascherare i propri rivali in magia. Lo vediamo in tournée a Berlino, è il 1928 e già il momento è significativo se si pensa alla piega che di lì a breve avrebbero preso le cose. Consapevole dell’importanza della propria attività – “La gente è alla ricerca disperata di speranze in un mondo che non ne ha” -, Stanley non resiste alla tentazione di sfidare altri professionisti della magia. Quando poi sente parlare di una giovane donna, Sophie Baker, non illusionista bensì sedicente medium, in grado di comunicare con le anime d’oltretomba, la tentazione di andare a trovarla diviene irresistibile. Stanley lascia a Berlino la propria maschera di illusionista cinese (si traveste solitamente da Wei Ling Soo) e va in Costa Azzurra. L’incontro con Sophie (Emma Stone – The Amazing Spider-Man, Birdman) produce sfumature di giallo e di nero, sempre nei confini della commedia ma con punte di ambiguità così velenosa da imprigionare lo spettatore nell’intrigo non solo narrativo bensì nel reticolo di quesiti-trappola che man mano emergono dall’evolversi della situazione. E’ la stessa vita quotidiana a produrre ambiguità, per cui gli interrogativi producono altri dubbi, sia esterni sia riguardanti, man mano, la consistenza del proprio essere. E’ specialmente Stanley a sentirsi coinvolto in una specie di riesame della propria personalità, il dubbio su di sé e sul suo rapporto con l’altro lo assale e si impadronisce della sua sensibilità. In un primo momento, Sophie gli appare come una ragazza perfino un po’ sempliciotta la quale sembrerebbe puntare, in sostanza, alla conquista del giovane rampollo di casa Catledge, la cui madre spera di potersi mettere in contatto con il marito defunto. Ma presto – e qui entra in ballo la sublime bravura di Allen nel mescolare ben bene le carte del gioco – la dinamica delle attrazioni si sposta e si sostanzia di altro interesse, fino a minare in profondità le sicurezze del grande “mago” e trasformarlo in una preda perfino facile da ingabbiare. Di spostamento in trasferimento, emergono problematiche sempre più coinvolgenti, fino a toccare temi di carattere generale, come il rapporto tra dignità dell’uomo e esistenza di Dio. La capacità di Allen di gestire simili vertigini è stupefacente, la bravura del grande attore che è Colin Firth e anche l’agilità di Emma Stone nel difficile ruolo del continuo elastico ingenuità/furbizia giovano alla verosimiglianza interna del racconto. Dopo un primo tentativo (Blue Jasmine), già convincente, di uscire dal troppo convenzionale “giro” delle capitali europee (Vicky Cristina Barcelona, Midnight in Paris, To Rome with Love), il regista conferma il rientro in sé, proponendo addirittura con questa “magia” una trasparente metafora del proprio cinema.
Franco Pecori
4 Dicembre 2014