Una moglie
A woman under the unfluence
John Cassavetes, 1974
Gena Rowlands, Peter Falk, Matthew Cassel, Matthew Laborteaux, Christina Grisanti, Katherina Cassavetes, Fred Draper, Lady Rowlands, Charles Horvath, Mario Gallo, Nick Cassavetes.
John Cassavetes è stato a lungo conosciuto in Italia soltanto per la sua prima opera, Shadows (Ombre, 1959), cha ha circolato poco, ma che comunque è stata giudicata la più significativa ai tempi del New American Cinema. Niente, o quasi, sceneggiatura scritta, niente segni a terra per gli attori in funzione delle luci, giovani interpreti non professionisti che si identificano con i personaggi a livello esistenziale e si muovono su un canovaccio di partenza come nella commedia dell’arte, presa diretta del suono, 400 mila dollari di costo. A 18 anni di distanza, è giunto da noi Una moglie, realizzato nel ’74. Fino allo scorso anno, nonostante la Mostra di Venezia avesse presentato nel ’75 Husbands (’70) e Minnie e Moskowitz (’71), soltanto Ombre e Una moglie erano i film di Cassavetes visti nel circuito italiano. Cassavetes è uno di quei registi che fanno dei film avendo in mente un progetto di fondo molto ben definito, la proposta metodologica s’impone sulle variazioni del contenuto. Lo stile rimane talmente fedele a se stesso che ogni volta si hanno quasi gli stessi risultati. Il dato più appariscente è la recitazione. Gli attori non recitano, si comportano. I ruoli sono costruiti attraverso un’assidua frequentazione, in cui tutti danno dei consigli per modificare la sceneggiatura, per inventare i particolari, per approfondire i personaggi. Si arriva, in un certo senso, a fare un cinema “familiare”. Dopo molte settimane tutti conoscono e ormai “vivono” il film da fare. Sia nel caso del canovaccio appena abbozzato (Ombre), sia nel caso della sceneggiatutra vera e propria (Una moglie), l’esito è praticamente lo stesso. Una grande scioltezza nel vivere il set, in quanto i limiti tra messa in scena per il film e messa in scena per la vita sono molto ristretti. Dice Cassavetes: «Non direi mai ad un attore che recita falso […]. Conto prima di tutto sull’attore, che mi dia la sua interpretazione». Dopo di che la macchina da presa si mette al servizio delle persone e si muove dolcemente seguendo i loro movimenti. Sul montaggio si fa poco conto, il meno possibile. Si cerca di rispettare al massimo i tempi reali dell’azione.
In tutto questo vi sono vantaggi e svantaggi. Primo, una certa ambiguità a livello di senso. Quando hanno chiesto a Cassavetes perché avesse scelto una coppia di operai per fare Una moglie, ha risposto che la classe operaia non lo interessava come problema politico e che l’esigenza era di avere una situazione il più emozionale possibile per una donna che vive in casa e che ha dei bambini. La moglie di un operaio andava bene perché l’ambiente in cui vive è un ambiente chiuso, che la costringe a stretto contatto con il focolare e con i figli. All’interno di questa situazione, il significato letterale è abbastanza banale: chi è matto? la definizione è relativa, dipende in gran parte da ciò che pensano gli altri, i quali sono condizionati da una serie di regole più o meno rigide, che sopportano poche differenze di comportamento.
La maggiore preoccupazione di Mabel (Gena Rowlands), quando torna a casa dopo che la suocera l’ha fatta rinchiudere in ospedale psichiatrico, è di chiedere: «Come mi comporto?». Il suo problema, fin dall’inizio del film quando manda via i figli con la madre e si prepara tutta sola in casa a ricevere il marito per passare con lui una serata in intimità, è di misurare le corrispondenze tra ciò che ella vorrebbe che fossero i rapporti con gli altri e ciò che in realtà devono essere. L’emozione di restare sola e, in un certo senso, libera le dà una tale scossa da farle perdere l’equilibrio. È così forte la voglia di stabilire un contatto autentico, fuori dalle piccole costrizioni quotidiane, che quando Nick, il marito (Falk), le telefona che non tornerà a casa per motivi di lavoro Mabel, in preda a un raptus, esce, va in un bar e si porta a casa il primo che incontra. Salvo poi, la mattina dopo, ad intestardirsi a chiamarlo Nick, perché è ciò che lei voleva veramente: stare con Nick. E non accetta di esserrsi sdoppiata, di non essersi controllata, di aver ceduto all’emozione.
Raccontare il film sarebbe molto lungo. È difficile estrarre dal tessuto diegetico la trama di un racconto che nasce come negazione del racconto. In ogni inquadratura i significati si moltiplicano e si atomizzano in funzione del tempo reale, che al cinema, data l’abitudine che abbiamo al montaggio, risulta dilatato. Il rischio maggiore per l’attore (inutile dire che qui tutti funzionano a meraviglia, i protagonisti e gli altri, genitori, amici di Nick, bambini) è l’oscenità. Un conto, infatti, è interpretare un ruolo che qualcuno ha inventato e scritto, un conto è calarsi in una parte fino a rischiare la vita, la propria vita privata. Il cinema, allora, presenta tutti pericoli dell’esistenza quotidiana e soprattutto c’è il caso che il film non vada al di là dell’obbiettivo, se così vogliamo dire. In fondo, da questo punto di vista, questo e gli altri film di Cassavetes sono il documentario di ruoli che dovrebbero nascere per il film, ma che il film non vede nascere, potendo soltanto registrare la fenomenologia dell’attore. L’atto, all’interno della messa in scena, è “svalutato”, viene tolto da una codificazione forte (il cinema) e lasciato vivere come atto di “parola” (il film).
L’altra faccia del limite è l’originalità. Ma fino a dove? Presumibilmente, fino a che il regista non incontra il cinema (ripresa-montaggio, selezione-combinazione, funzione-norma). La differenza tra la trasgressività di Cassavetes e la rivoluzione della Nouvelle Vague è qui: nell’essere fuori o dentro al cinema. In fondo, l’angoscia e la malattia di Mabel derivano proprio dal rifiuto delle regole, dei condizionamenti, da quell’ansia, anche sacrosanta, di azzerare le distanze e toccare il vivo delle pesone, la loro sostanza umana. Solo che il cinema questa sostanza deve pur rappresentarla, deve metterla in scena utilizzando una tecnica. Il rapporto tra queste due facce è la maggiore tensione di Una moglie. L’interessante non è nella libertà e nella naturalezza, che in se stesse non fanno arte. Ciò che conta à quella libertà, quella naturalezza rappresentate, per cui viene fuori un campionario di cose non dette, di modi di dire inusitati al cinema.
Il livello di trasgressione dei codici è alto, soprattutto sul versante del filmato – la ciabatta che sfugge, la croce con le dita, lo strabismo di Nick-Peter, i tempi morti, Mabel che esce e porta a casa uno qualsiasi senza vole portare a casa uno qualsiasi, il guardarsi recitare alla presenza della macchina da presa, ecc. -, ma anche su quello del filmico – una specie di confronto interno con il pedinamento zavattiniano e con il film-verità. La trasgressione filmica è meno forte perché, ripetiamo, è costretta ad arrestarsi sulla soglia della “parola”. Oltre il film, troverebbe il cinema. E prima di tutto il cinema americano. Meglio allora restare alla splendida sequenza che ci dice la “verità” (non tutta, si capisce) sull’arte di fare una spaghettata in cucina, improvvisamente all’alba, con il marito e gli amici che tornano dal lavoro, “dando a vedere” che lo scopo è un altro, che si vorrebbe andare molto al di là, che si vorrebbe farsi accettare “prima” del comportamento, per la sola emozione che un essere di fronte a noi può dare. L’emozione e la regola, ecco Una moglie. Ma, abbiamo finito per tirar fuori una regola e annullare l’emozione. Pregio e difetto della critica.
Franco Pecori
Franco Pecori Una moglie Rivista del Cinematografo, n. 8-9, agosto-settembre, 1978
1 Settembre 1978