Doppio amore
L’amant double
Regia François Ozon, 2017
Sceneggiatura François Ozon, Philippe Piazzo
Fotografia Manuel Dacosse
Attori Marine Vach, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset, Myriam Boyer, Dominique Reymond.
Rarità. Coscienza del cinema, del linguaggio e della storia, che si dimostra in semiosi creativa, evidando il manierimo volgare, elementare – come troppe volte avviene in “autori” che spacciano per realtà la “realtà” e offrono “storie vere” all’occhio di spettatori assuefatti. Qui la sostanza del contenuto rimanda a un problema scientifico, di eccentricità genetica, che riguarda lo sviluppo fetale di due gemelli. Fornire qui la spiegazione del caso che dà corpo al film sarebbe tradire la suspence, chiave dell’attesa di cui François Ozon si serve per ospitarci nel luogo della diegesi. Conviene seguire Chloe – una Marine Vasch che da ragazza Giovane e bella (2013) si fa giovane donna dal piacere bloccato in una pancia dolorante – nel suo viaggio psicoanalitico e nella conseguente “resurrezione” cinematografica. Si parte dalla decisione della protagonista di affidarsi alla cura nel tentativo di risolvere il malessere che la perseguita: “Penso di non saper amare”, confessa nella prima seduta. Ma presto il rapporto con lo psicoanalista Paul (Jérémie Renier) evolve in attrazione affettiva, tanto che i due decidono di andare a vivere insieme. Qui il caso si complica. Intanto perché Chloe porta con sé il suo gatto e si capisce che la cosa non è gradita a Paul. Poi, mentre l’amore stenta a infiammarsi, la donna crede di scoprire che il compagno la tradisce: lo ha visto in strada abbracciare un’altra. A meno che non si sia sbagliata e non abbia visto un uomo molto somigliante a Paul, forse un gemello? Ozon s’inoltra in un tunnel estetico, come per una sfida all’ultima possibilità espressiva, quasi per una cura cinematografica che lo liberi, che liberi finalmente lui e con lui gli altri autori che hanno tentato e tentano ancora di “esprimere mostrando” movimenti “interni” della psiche attraverso il cinema. Siamo e restiamo al limite delle possibilità/necessità, come del resto accade ogni volta che in un discorso entri in ballo la necessità di vedere “oltre”, sapendo che una dimensione metalinguistica è comunque richiesta in sé dallo stesso linguaggio. Con grande bravura, la regia svolge il racconto sul filo dell’ambiguità analitica, affidandosi alla perfetta simbiosi con gli attori. Bravo Renier nell’essere l’uomo a due facce, gentile e affettuoso in Paul, aggressivo e dominante nel “gemello” Louis; brava la Vach a prestare i suoi occhi e tutto il suo corpo per un difficilissimo elastico, andata-ritorno e fuori-dentro, senza mai lasciare la glaciale espressività connotativa dei nostri “nuovi giorni”. A tratti il film sembra piegarsi alla tentazione di citare il pregresso (Hitchcock, De Palma, Polanski, Cronenberg sono gli autori di cui s’è fatto il nome già a Cannes, dove L’amant double passava in concorso), ma si resta nell’equilibrio dell’autonomia espressiva e, da parte del fruitore, il gusto di voler mostrare di aver capito rischia di degradare il valore dell’opera, che invece è altro. Quando Chloe è con l’Uno (Paul) pensa all’Altro (Louis) e viceversa. Lo schermo evita, per quel che può, di mostrarci il manuale interpretativo: dall’arte alla scienza il passo non è breve, come dalla lettura alla visione. In ogni lettura, in ogni visione. [Dal romanzo “Lives of the Twins”, di Joyce Carol Oates]
Franco Pecori
19 Aprile 2018