Borat
Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan
Larry Charles, 2006
Sacha Baron Cohen, Pamela Anderson, Ken Davitian.
Dall’altra faccia della luna, ossia dall’emittente televisiva Mtv, qualcuno (il DJ Sacha Baron Cohen) ci invia un messaggio dalle spiccate parvenze culturali, antropologico, come lascia intendere il sottotitolo: Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan. Sacha Baron Cohen è una vera star televisiva, idolo dei frequentatori del circuito di cui sopra, specie dopo l’invenzione del Da Ali G Show, dove il personaggio di Borat Sagdiyev, famoso giornalista televisivo del Kazakhstan, la fa da padrone. Borat arriva sul grande schermo, grondante di riconoscimenti (due premi Bafta, Evento speciale alla Festa di Roma, Golden Globe all’attore protagonista, candidatura all’Oscar per la sceneggiatura non originale), a testimonianza del definitivo consolidamento di un linguaggio “straniero” e non vago, “folle” ma esatto, ben definito, ma non prima di una lettura “seconda”. Insomma lo specchio di un mondo speciale, la fruibilità della cui rappresentazione può essere fattore di quel senso di sicurezza, di protezione dalle aggressioni del vivere standard provenienti dalla sfera “evoluta”, sensazione già propria dei gruppi autorecintantisi dell’Occidente “americano” e, ancor più, suggerisce Borat, di quanti, avvertendo in se stessi una strana inadeguatezza, cercano rifugio nel bunker del sarcasmo. Non del sarcasmo diretto (per quanto possa essere diretto il sarcasmo), ma dello sghignazzo ridanciano che assume licenza di “uccidere” senza prendersi il rischio della pena. Nel film, due mondi vengono a contatto e il confronto è “drammatico”, soprattutto per l’incredibile sincronia che forzosamente li sottopone a reciproca analisi. Il kazako parte per il suo réportage dal suo misero villaggio, imbevuto di parametri culturali così “arretrati” da giustificare persino – agli occhi di chi avesse guardato dal di qua del “muro” – le difficoltà del comunismo reale a sviluppare un’azione “civile”. Il minimo che possa capitare a uno come Borat, in cerca di informazioni sul “più grande Paese del mondo”, è di innamorarsi perdutamente di Pamela Anderson, vista alla tv, e di inseguirla da New York fino in California, ignorandone l’esclusiva consistenza mitologica. E d’altra parte, la civiltà amaricana si dimostra non efficientissima nell’aprirsi ad un’adeguata opera, se non di inculturazione, almeno di istruzione pratica sul comportamento comune. Il motivo è chiaro: i modi di essere si basano su convinzioni tutt’altro che consapevoli, cosalizzate piuttosto, trasformate da forme culturali in oggetti quasi-materiali, intraducibili o quasi, verso lo straniero bisognoso di incontri. In sostanza, c’è poco da ridere.
Franco Pecori
2 Marzo 2007