Green Zone
Green Zone
Paul Greengrass, 2010
Fotografia Barry Ackroyd
Matt Damon, Greg Kinnear, Brendan Gleeson, Khalid Abdalla, Amy Ryan, Jason Isaacs, Said Faraj, Michael O’Neill, Yigal Naor, Antoni Corone, Raad Rawi, Martin McDougall, Sean Huze, Edouard H.R. Gluck, Allen Vaught, Nicoye Banks, Paul Rieckhoff, Aymen Hamdouchi, Soumaya Akaaboune, Bijan Daneshmand, Jerry Della Salla, Brian VanRiper, Adam Wendling, Paul Karsko, Amar Adatia.
Roy Miller (Damon) si sente messo in mezzo. È un soldato americano preparato, sa quello che fa, è pronto ad eseguire le missioni anche le più dure. Quando da luogotenente (lo chiamano “capo”) viene incaricato di scoprire nel deserto iracheno i siti dove sarebbero nascoste le armi di distruzione di massa, Roy si impegna a fondo con la sua squadra per mettere le mani sulle “prove” della ragione per cui – come dice egli stesso – l’esercito statunitense si trova in Iraq. Siamo nel 2003. Una, due, tre azioni in mezzo a mille pericoli e violenze di tutti i tipi: niente, nessun deposito chimico, tanto che a Miller comincia a venire il dubbio che le indicazioni ricevute dai superiori provengano da informazioni segrete sbagliate. Errori casuali? La strana reazione degli ufficiali alle sue prime domande incuriosisce Roy, il quale comincia per conto proprio ad indagare sulla “verità” della sua stessa presenza in quel paese sconvolto da contrasti che sembrano insanabili. Entrano in ballo personaggi dell’intrigo internazionale, la Cia, la Dia, i Berretti Verdi, i politici locali che complottano nella confusione totale. Freddy (Abdalla), un civile, offre a Miller la propria collaborazione per arrivare alla fonte delle false notizie mentre una giornalista (Ryan) impegnata sul campo mostra gli stessi interessi. Per quanto complicato, il film appare ridondante, quasi come potrebbe esserlo oggi un western sulla “verità” degli indiani d’America. Tra i fatti e l’azione di Miller (Green Zone – avverte il regista – non è un film sulla guerra in Iraq) si frappone la scelta di genere, con gli stereotipi stracollaudati, militari in tuta da cambattimento, scontri armati, elicotteri, inseguimenti, ecc. E Greengrass carica anche troppo le sequenze di un ritmo asfissiante. I primi dieci minuti mettono lo spettatore a dura prova. D’altra parte, è chiara la necessità di bypassare l’ostacolo obbiettivo rappresentato dalla montagna di materiali da Tg accumulatisi nella memoria collettiva ed elaborati ormai in un immaginario non più tanto disponibile a fantasie ulteriori. È il limite che rende quest’ultimo lavoro del regista britannico meno attraente dei due film da lui diretti e dedicati all’alienazione di Jason Bourne, il superkiller di Bourne supremacy e Bourne ultimatum. Tuttavia una qualche similitudine resta, per così dire, nell’aria, proprio in quel sentirsi, i personaggi interpretati da Damon, coinvolti involontariamente in un destino alienante. Se Bourne si chiedeva che fine avesse fatto la propria coscienza, Miller conclude il proprio “spaesamento” iracheno con una domanda che oltrepassa la medietà dello spettacolo: «Che cosa succederà la prossima volta che chiederemo fiducia?».
Franco Pecori
9 Aprile 2010